Un breve preambolo prima della consueta, noiosa, Istantanea. Un preambolo però pienamente contestualizzato, oltre che gioioso, e che prende spunto dalla pubblicazione nel nostro Portfolio di alcune testimonianze di lavori realizzati negli ultimi mesi. Scorrendone la lista, rivedendo le immagini prescelte a rappresentarli, ricordando il travaglio che sta alla base della loro attuale evidenza, ci siamo detti fortunati di poter ancora permetterci il lusso di lavorare con persone, e marchi, di così alto livello qualitativo. Una fortuna che si evidenzia ancor più allargando lo sguardo (contestualizzando, appunto) in un panorama professionale che molto spesso tende a sacrificare la qualità sull’altare dell’utile e della fretta, ossia del cosiddetto riscontro numerico immediato. Abbiamo la fortuna di collaborare con un’eccellenza dell’alta gastronomia italiana, che fa capo a un gruppo forte, radicato nel territorio vicentino e composto da imprenditori di successo, eppur simpatici e gaudenti (di qui il nome che abbiamo affibbiato al gruppo: Gaudes); la fortuna, correlata alla precedente, di operare al fianco di uno degli chef più talentuosi del panorama nazionale, che in questi giorni ha deciso di dar vita al locale dei nostri sogni (Locanda Grandi a San Bonifacio); la fortuna di operare al fianco del genio del salmone, Claudio Cerati da Parma, ideatore di un’ennesima squisitezza - incomparabile, non solo perché buonissima ma anche perché, a tal guisa, unica al mondo (Salmone Stagionato Upstream); la fortuna di operare al fianco di un viticultore veronese illuminato che accudisce le proprie vigne, sui Monti Lessini ad alta quota, con amorevolezza paterna, traendone vini con un carattere forte eppure delizioso, del tutto simile al suo (Daniele Piccinin, deus ex machina di Muni); la fortuna di operare al fianco di Stefano Perugini, patron di Primopan, da Battifollo, Cuneo, depositario della ricetta del più buon biscotto del mondo (giudizio che abbiamo assegnato alle sue Foglie di Mais ben prima di conoscerlo, di lavorare insieme); la fortuna di operare al fianco di colui che ha fatto della selezione dei grandi vini di Francia una missione, ma anche un’opera d’arte, letteraria e figurativa: Giulio Menegatti, artefice del marchio GMF. E infine ci sentiamo fortunati di aver contribuito all’espansione di un grande gruppo che, pur non trattando delizie enogastronomiche, da tempo rappresenta una conclamata eccellenza del Made in Italy nel mondo: Twinsnetwork, cui fa capo un marchio a noi molto caro: Brado, leader per le sedute di ufficio e contract. Dopo questo lungo elenco, che più che un’ostentazione è un atto di gratitudine, possiamo avventurarci, con tutte le cautele del caso, nei sempre oscuri meandri dell’Istantanea...
«La stupidità deriva dall’avere una risposta per ogni cosa. La saggezza deriva dall’avere, per ogni cosa, una domanda». Così Milan Kundera nel suo capolavoro “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, appena riletto per l’ennesima volta («un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un rilettore», Vladimir Nabokov). A Kundera dobbiamo l’ispirazione che consiglia d’intitolare questa Istantanea con una domanda non necessaria, almeno quanto l’attività che prende in esame. Perché, infatti, sottoporsi alla pena di contestualizzare in un mondo che impone, a chiunque aspiri al successo, risposte secche e immediate figlie di un solido e indiscutibile pregiudizio collettivo imposto dall’alto? A nostra memoria e dai nostri studi precari, in democrazia la moda del pensiero dominante come stella polare non ci sembra mai stata così unanime, così luminosa, abbagliante. Perché, quindi, intraprendere le sempre problematiche “aperture di contesto”, tipiche del metodo dialettico, che iniziano esattamente con l’attività che rendeva svegli i bambini prima della sedazione digitale: l’arte del domandare? Perché perdere tempo e sicurezze per sottoporsi a un impegno in grado di suscitare il dubbio, causa d’insuccesso certo?
Domande che noi, specialisti della contestualizzazione per deformazione professionale (e perciò, pur a nostro discapito, nemici giurati del conformismo), ci poniamo a ogni piè sospinto, costretti da sempre a vivere dubitando di tutto - del resto qualche sciagurato le domande deve pur porsele, per sperare di scansare ogni tanto la banalità. Specialisti quindi del “domandare contestualizzando”, ci costringiamo all’approfondimento d’ogni argomento che attiri anche minimamente la nostra attenzione, quasi per riflesso pavloviano. Ecco un esempio tra molti, ma tra i più marginali: proprio per questo lo riteniamo esemplare.
Da quando, oramai molti anni fa, abbiamo avuto il piacere d’interloquire con una ragazza nigeriana immigrata con la madre in Italia in tenera età, ci teniamo un tantino aggiornati intorno alla qualità della vita in quella zona del mondo - qualità che lei ebbe modo di illustrarci a profusione. Così, per semplice curiosità, da allora accumuliamo incostanti informazioni in merito alla condizione sociale delle donne nigeriane, che a noi pare ancora oggi simile a quella che aveva consigliato a suo tempo l’espatrio alla madre «a qualsiasi costo e verso qualsiasi luogo, pur di non rimanere lì a marcire». Le pagine web prese in esame in questi anni sono varie e di vario orientamento politico, ma i tratti che emergono sono sempre gli stessi: donna relegata ai margini della società; discriminazione e violenza di genere; violazione dei diritti elementari; schiavitù femminile a privilegio del maschio, tra lavoro forzato o non retribuito, o molto mal retribuito; analfabetismo indotto; sudditanza tribale; mancato riscontro nella linea ereditaria. Fino ad arrivare a vere e proprie enormità come la pratica di concedere in moglie una bambina, evidentemente senza il suo consenso; stupro finalizzato alla vendita dei neonati; mutilazione degli organi genitali. Testimonianze di queste atrocità si possono facilmente ricavare in rete - una rete che di norma riteniamo infida, salvo quando, come stavolta, l’unanimità di voci di diverso tono prende il sopravvento.
Ebbene, in tale scenario di riferimento ci hanno colpito le dichiarazioni di una ragazza italiana di famiglia nigeriana (questo, banalmente, l’appiglio che ha determinato la correlazione - che fa pendant con la contestualizzazione), cresciuta a due passi da qui, a Cittadella, esternate durante una futile e volgare esibizione canora. La ragazza, divenuta ricca e famosa in grazia dei suoi indubbi meriti sportivi in seno alla nazionale italiana di pallavolo, lamenta d’aver subito, in anni passati e in tempi recenti, gravi discriminazioni razziali: qualche battuta infelice da parte di alcuni compagni di scuola, qualche intervento meschino via social (del resto, la palestra dell’odio globalizzato) da parte di alcuni pseudo tifosi; oltre ad aver visto, da ragazza, la madre preceduta da altri individui, arrivati dopo di lei nel servizio al banco dei formaggi. Indubbi segni di mancanza di cultura, educazione e intelligenza, pur circostanziati, in un Paese che si ritiene, a torto o a ragione (per noi, a torto), civile, oltre che democratico. Di qui a parlare di un’Italia profondamente razzista, però ce ne passa.
Contestualizzando non possiamo infatti non valutare i torti subiti dalla cittadellese alla stregua d’altre banali mancanze di cultura, educazione e intelligenza. Per esempio essere sbeffeggiati da un compagno di classe perché balbuzienti, o vedere una madre, casalinga priva di titoli di studio, trattata con volgare sufficienza da una tronfia professoressa di scuola media inferiore. Nostre esperienze di cui potremmo anche lagnarci sui social, nel tentativo di sembrare à la page - e magari anche con il pretesto di motivare, e giustificare, tare e turbe psichiche attualmente in corso d’opera -, ma che non recepiamo essere esperienze più o meno banali e fastidiose di moltissime altre in questo stesso momento in atto a tutte le latitudini, e in tutte le colorazioni possibili. E queste banali scelleratezze, l’abbiamo visto prima, sono niente rispetto alle atrocità di cui è capace l’uomo (nel senso di uomini, donne, e vari intermedi: oggi conviene specificarlo a scanso di equivoci).
Crediamo che Thomas Hobbes non sbagliasse considerando gli umani nel loro “stato di natura” nient’altro che grumi di egoismo, armati gli uni contro gli altri con l’unico obiettivo di sopravvivere (Homo homini lupus), umani che, nel corso dell’evoluzione, hanno inteso il bene solo in funzione opportunistica. La stessa civiltà (nell’accezione più vasta del termine), che con le sue idee e i suoi ordinamenti impedisce agli umani di uccidersi a vicenda, è considerata da Hobbes una mera forma di opportunismo organizzato. Ne deriva che anche chi non ammanta una grande civiltà d’alti contenuti, come Hobbes, non può esimersi dal considerarla il grande rimedio, indispensabile proprio per limitare lo stato di natura, ossia l’istinto alla conservazione naturale. Ed è proprio per questo, e per renderci quindi più empatici e collaborativi, che servirebbe più cultura, più educazione e più intelligenza (e magari, di converso, molti meno slogan, twitter e hashtag). Servirebbe più cultura, più educazione e più intelligenza a tutti gli uomini e donne e intermedi, sin da neonati, in ogni parte del mondo - quando invece sembra che proprio cultura, educazione e intelligenza siano in forte recessione, sacrificate sull’altare di un presunto “specialismo” che ci vorrebbe ferratissimi in un singolo, sparuto, argomento e ignoranti del resto, del contesto. Balzando a piè pari alle conclusioni: riducendo tutto a razzismo, ossia scambiando uno qualsiasi degli effetti per la causa, pensiamo che si faccia un pessimo servizio all’umanità.
Estendendo il giochino: e se contestualizzassimo ciò che ogni giorno viene calato dall’alto dallo strapotere politico-mediatico conformista? Di possibili eretiche contestualizzazioni ne buttiamo lì alcune prese a caso dal mazzo - seguite da altrettante ipotetiche derive conseguenti al semplice atto del contestualizzare.
Se contestualizzassimo le figure che hanno caratterizzato il corso della nostra civiltà nel flusso della storia dell’uomo, davvero abbatteremmo statue e bruceremmo libri, anche solo metaforicamente? Se contestualizzassimo il gender all’interno di una visione armonica dell’endogeno (biologia, fisica) e dell’esogeno (socialità, cultura), davvero avremmo l’urgenza d’inserirlo in cima ai programmi d’insegnamento da imporre ai nostri bambini? Se contestualizzassimo i problemi dell’ambiente in funzione di un cambio di paradigma che tenga in considerazione (seppur marginalmente, per carità!) anche i ritmi geologici, e non esclusivamente i ritmi umani generazionali, davvero continueremmo a prendere decisioni d’urgenza (nemmeno mancassero novanta minuti alla fine del mondo), quasi sempre sommarie e fatalmente sempre a scapito dei meno abbienti e dei poveracci, quasi fossero loro, e non le multinazionali, i principali colpevoli del degrado ambientale? E se contestualizzassimo la guerra in Ucraina, l’argomento più spinoso del momento? Lo potremmo benissimo fare addirittura in due sensi distinti, volti al passato e volti al futuro. Al passato, scorrendo qualsiasi resoconto politico (resoconto, non illazione, deduzione, congettura, inferenza...) dal crollo del Muro di Berlino all’attacco russo dell’anno scorso; e volti al futuro, in funzione di possibilissime conseguenze missilistico-nucleari di qui a breve, potenzialmente definitive e inappellabili per il nostro pianeta e per il genere umano. Ecco, ci chiediamo: di fronte a questo paio di banalissime contestualizzazioni (che nessun potente in Italia s’è però preso la briga di valutare, almeno sin qui), davvero continueremmo a inviare armi in quelle lande desolate, invece di cercare in tutti i modi d’intavolare iniziative di pace? E se contestualizzassimo il fascismo (altro argomento gettonato) nell’arco temporale che va dai prodromi, ossia dall’impresa di Fiume e dintorni, all’insediamento dell’ultimo Presidente del Consiglio, davvero continueremmo a trattare la questione come se fosse imminente una nuova marcia su Roma? - evidentemente in monopattino elettrico, stavolta. E se avessimo la forza di contestualizzare lo strapotere della speculazione finanziaria multinazionale e del suo principale braccio armato che ricade direttamente sugli umani, ossia il dominio tecnologico in vista di un’intelligenza artificiale spalmata su tutto, cercando di misurarne l’impatto che ha, e soprattutto avrà, sulle vite, sul lavoro e sulla dignità di tutti noi poveri diavoli, davvero continueremmo a rintronarci con i gadget hi-tech invece di scendere in piazza a fare un po’ di cagnara? Dulcis in fundo: se potessimo contestualizzare le riforme della sanità pubblica degli ultimi decenni misurandole dal basso (un basso anche geografico, oltre che sociale), davvero continueremmo ad avere fiducia nei confronti di chi le ha progettate e attuate - gli stessi che ci inducono a “credere” alla scienza quale unica vera religione del nostro tempo (e a proposito delle varie riforme della sanità e della scuola, vien da pensare al malinteso legato al verbo riformare, palesemente inteso nella terza accezione: “esonerare dal servizio per inabilità”). Potremmo continuare per una settimana con i “se” e con i “davvero”: un’inutile noia mortale che ci risparmiamo volentieri.
In definitiva, e cercando di fare una sintesi brutale (altro esercizio che va di moda): se avessimo il coraggio di contestualizzare noi stessi in una società di umani, non quindi composta da tanti avatar guerreggianti tra loro ma da una somma di povere creature periclitanti (smentendo così il teorema hobbesiano, che in realtà non ci ha mai convinti del tutto), davvero seguiremmo le orrende mode che, a ondate, vengono propinate con la forza politica della persuasione, o imposte tramite la forza mediatica della retorica e della più pura propaganda, quali prese di posizione indispensabili e perciò inderogabili? Domanda che finirebbe per ridursi ulteriormente in modo ancora più brutale:
indispensabili a chi?
16/03/2023 Filippo Maglione