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Grafica e comunicazione

Vanità

Con il penultimo libro, pubblicato un anno prima, vince il premio più prestigioso di tutti. Il suo ultimo libro, fresco di stampa, sta andando a ruba. Dopo lunghi anni nell’ombra è lui che trascina al successo la sua casa editrice. Lo cercano tutti. La sua figura austera, prima ritenuta dimessa e un po’ triste, adesso viene unanimemente considerata autorevole. Le ragazze se lo mangiano con gli occhi, lo vogliono conoscere perché è un grande scrittore, una celebrità, ma anche perché ora è tanto, tanto affascinante.
Che la sua arte si affinasse e fosse infine riconosciuta dagli altri: non ha desiderato altro, a livello professionale, negli ultimi vent’anni. Ma ora che la sua arte si è affinata sul serio e il riconoscimento si è tramutato in ammirazione generale, ora che si trova lì, sul proscenio con i riflettori della celebrità puntati addosso, non può far altro che oscillare tra flebili barlumi di vergognosa vanità e pesanti tormenti esistenziali, tra pietà di sé stesso e il tentativo vano di uscire dall’isolamento. Come non mai.
Questa che a guardarla da fuori sembra una contraddizione inspiegabile lui la comprende benissimo. Si rende conto che il successo, anelato da sempre, una volta conseguito non è in grado di compensare alcunché. Si sente inibito, inadatto alla vita, come prima; ma con più intensità di prima, perché senza ulteriori speranze. Il successo poteva funzionare come obiettivo, come prospettiva, come miraggio, finanche come chimera. Ma una volta materializzato, il successo, non è in grado di fornire più nulla di buono; riesce solo ad accentuare il tono di vanitas vanitatum e di estenderlo a tutto, perfino a ciò che ama di più, alla poesia, alla parola scritta. E questo significa la fine. Non gli resta che l’ultima riflessione scoraggiata sull’insoddisfazione prodotta dalle lusinghe della vanità, dalle lusinghe dell’effimero. Scrive una lettera a un amico: “Ormai, come Cortez, mi sono bruciato dietro le navi. Non so se troverò il tesoro di Montezuma, ma so che nell’altipiano di Tenochtitlán si fanno sacrifici umani. Da molti anni non pensavo più a queste cose, scrivevo. Ora non scriverò più e farò il mio viaggio nel regno dei morti…”.

Queste sollecitazioni mi precipitano a uno dei libri più perturbanti mai scritti (e letti) che dà voce a un uomo di potere e di successo disingannato dalle illusioni di grandezza, stanco dei piaceri e disgustato dall’uomo, da sé, dalla scienza, da tutto. Un uomo che però, alla fine di questo lavoro di autodistruzione capillare, trova la forza di vivere ancora, nonostante tutto, abbandonandosi con fiducia al Padre.

In questo periodo sembra strano ripensare alle dolorose lezioni morali di Cesare Pavese e di Re Salomone (per tradizione l’ispiratore dell’Ecclesiaste): col Natale, per come lo intendiamo generalmente, c’entrano poco o nulla. Ma è appunto perché il Natale non è ciò che intendiamo generalmente, che alla fine credo c’entrino entrambe a bastanza.

23/12/2014 Filippo Maglione