Mesi d’intenso lavoro hanno rallentato la redazione dell’Istantanea dedicata alla Biennale. Mesi occupati a cercare di corroborare il nuovo corso di Brado con molti nuovi strumenti e mezzi (Brand Book, catalogo Office, brochure monoprodotto, magazine, blog, video, stand), a progettare un nuovo nome, marchio e immagine di prodotti per la grande distribuzione (Høy), un altro nuovo nome, marchio e immagine di un’attività produttiva e commerciale (Lievitarti).
Ammetto che dopo la lettura del libro “Contro le mostre” di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione, in cui viene denunciata quella che gli autori chiamano la biennalizzazione dell’arte, non sono partito bendisposto come altre volte verso il sestiere di Castello. Ho comunque visitato con molta cura i Giardini della Biennale. Più avanti mi riserverò di fare tappa all’Arsenale e in alcune delle tante (troppe) sedi collaterali. Perciò, ora, posso esprimermi solo in maniera parziale, nonostante l’allestimento dei Giardini sia sempre determinante nel definire la portata di un’edizione.
In gran parte dei casi - poche le eccezioni - mi sono sentito imbarazzato nei riguardi degli addetti, quasi tutti giovani, responsabili dei padiglioni e degli spazi espositivi. Ho pensato a cosa si debba provare a prestare la guardia per mesi a opere così brutte, tristi, ripetitive, velleitarie, sciatte, insignificanti (e magari anche a doverle giustificare agli occhi degli altri).
Se confronto il poco o nulla - formale, tecnico, concettuale - che ho potuto apprezzare in questa prima visita, con ciò che sono costretto a recepire ogni giorno per restare al passo con il mio lavoro, non mi resta che provare disprezzo verso la cosiddetta arte contemporanea, questa gran montatura speculativa capace di offrire il nulla (e non è una novità) ma senza più nemmeno lo smalto di un tempo: pretesti strutturalmente vuoti ammantati dal solo fascino della loro disposizione (in teoria, è noto, basta ben posizionare con un qualsiasi argomento ornamentale un sacchetto della spazzatura al centro di uno dei tanti notevoli padiglioni dei Giardini, e il gioco è fatto).
A monte credo si ponga un problema culturale legato alla globalizzazione e ai suoi derivati. Il pubblico dell’arte non è più composto da una élite discretamente colta capace di districarsi tra saperi svariati e riferimenti trasversali, e che pretende di essere stimolata attorno, appunto, a saperi e riferimenti svariati e trasversali, bensì da un pubblico eterogeneo, indistinto e ben che vada semplicemente infarinato di nozioncine buone per contrappuntare un aperitivo e l’altro, oltre che da una pletora di collezionisti incolti a caccia di opportunità speculative più elettrizzanti rispetto alle tradizionali. Così l’arte si è via via adeguata al suo pubblico, assumendo su di sé e trasmettendo di volta in volta e in maniera sempre più altalenante e modaiola, vaghe infarinature e suggestioni politiche, sociali, spirituali, spettacolari, fino a mischiarle in un gran calderone tiepido che le contiene tutte. Oggi non pare nemmeno più aggrapparsi a tali vaghezze.
Se penso alla vertigine provata visitando una tra le pochissime mostre geniali degli ultimi anni, facendo il confronto mi viene da piangere. Mi riferisco a “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918–1943”, la mostra organizzata da Germano Celant, capace di esplorare a fondo l’arte italiana prodotta durante le due guerre mondiali, perciò, in buona sostanza, l’arte partorita durante il vituperato ventennio fascista. Com’è possibile che in un mondo popolato da molti miliardi di persone connesse quotidianamente tra loro, aperto e colto e trasversale come non mai, ipertecnologizzato e ipertrofico, spettacolare e ultra-mediatico, si possano produrre ed esibire con orgoglio tante opere brutte e insignificanti come vertice della ricerca artistica planetaria? E come invece è stata possibile la produzione di così tante opere significative, e a volte profetiche, in una trascurabile nazione, retroguardia industriale e tecnologica ricolma d’analfabeti e ripiegata su sé stessa entro le angustie autarchiche di una triste, seppur carnascialesca, dittatura a inizio ‘900 nel sud dell’Europa?
Ma vorrei andare oltre questi impropri, e fors’anche stupidi, paragoni, oltre anche all’arte colta propriamente intesa, investendo nell’analisi un’arte per sua natura non elitaria ma popolare: il cinema. Di recente ho visto un film che ha spopolato: “Bohemian Rhapsody”. Non mi hanno sorpreso le soluzioni tecniche e scenografiche spettacolari, per esempio la ricostruzione impeccabile del Live Aid; non mi ha sorpreso il ritmo sostenuto del montaggio; non mi hanno sorpreso le qualità di alcuni degli attori principali - tutti dettagli che ritengo scontati per le mega produzioni hollywoodiane che ambiscono a impressionare l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Mi ha sorpreso invece la pochezza, la banalità, la piattezza, l’irrilevanza stessa del racconto, nonostante l’enorme carisma e la complessità dei personaggi a cui la storia s’ispira. Nel film è quindi mancato proprio lo spessore del racconto, ciò che dovrebbe sostanziarlo: base di partenza, fondamenta generatrice di vera emozione duratura e di senso. Che questo miserabile racconto abbia ottenuto un così grande successo di pubblico non fatico a comprenderlo: banalizzando ed edulcorando si ampliano i bacini d’utenza, perciò il fatturato e quasi sempre anche i profitti - sacrosanti, per carità. Ma la critica? I premi? Faccio davvero fatica a giustificarli.
Amplio ancora il discorso, perché credo che l’arte (la cosiddetta contemporanea come quella cinematografica) sia solo un semplice indizio di qualcosa ben più vasto.
Dopo averla per anni esaltata, sembra essere in atto una rivolta contro la complessità. Di recente ne ho avuto riscontro tramite un libro (“L’economia percepita. Dati, comunicazione e consenso nell’era digitale”, di Roberto Basso e Dino Pesole) capace anzitutto di chiarire quanto la tanto conclamata comunicazione orizzontale sia tale solo in apparenza (dietro alla mancanza di verticalità si celano in realtà grandi organizzazioni riconducibili a centri di potere economico), e poi quanto questa apparente comunicazione orizzontale, avendo via via eliminato ogni fase intermedia, abbia nuociuto all’apprendimento e al giudizio, favorendo risposte facili a domande difficili e spianando la strada a maldestre banalizzazioni, perciò anche ai populismi, sempre di matrice manichea. Il sapere, così come la profondità, e perciò la complessità, oggi sono generalmente visti come nemici. Il dato concreto e la statistica non interessano più come prima, venendo sistematicamente manipolati grazie a presupposti capaci di diventare lenti distorte in nome dei propri pregiudizi. Nulla che si fondi sul sapere, su dati di fatto realmente argomentati, viene preso sul serio perché proprio il sapere viene immediatamente associato al sapere di una élite, quindi a un imbroglio per tenere buone le masse. Il sapere è un complotto. Ciò che non viene compreso non è più visto come un problema, conseguenza di una propria mancanza di mezzi di comprensione, ma come un tentativo di raggiro. Oggi tutti sanno tutto, e al limite vengono imbrogliati.
Penso infine che tutto questo derivi da un sempre più grave problema dei livelli di percezione della realtà, percezione distorta che si innesca da una cattiva percezione di sé. La virtuale rivolta planetaria in atto, più che figlia della povertà e delle diseguaglianze economiche è figlia della frustrazione del singolo individuo moltiplicata per i singoli individui di cui è composta la rete. Una rivolta virtuale e globale... paradossalmente cavalcata e gestita da chi si vorrebbe sgominare (le grandi organizzazioni riconducibili a centri di potere economico). Finché resta virtuale, finché resta dentro la rete, una rivolta non nuoce, potendo, anzi, solo allargare i bacini d’utenza, il fatturato, i ricavi di chi la rete tacitamente la gestisce. Una rivolta ben ammaestrata, quindi, con tanti poveri volontari, spesso arrabbiati, che producono ogni giorno gratuitamente e a getto continuo tonnellate di contenuti indispensabili al poderoso arricchimento (reale) dei pochi abitanti la punta dell’iceberg (virtuale). Nulla di così democratico, nulla di così orizzontale. Questo malinteso, che è anche un cortocircuito, è reso possibile grazie all’implicito assunto che muove la nostra società del benessere democratico, fondata non più sui valori ma sui desideri dei singoli. Desideri che hanno innalzato vertiginosamente la soglia dei sogni e delle aspettative. Questa è la nuova povertà: non la mancanza di mezzi ma la sproporzione tra ciò che si è (tramite ciò che si ha) e ciò che si vorrebbe essere (tramite ciò che si vorrebbe avere). Sogni e aspettative che una volta sfumati diventano rabbia, ripiegamento, distruttività; istinto punitivo - solo virtuale, nemmeno reale, liberatorio. È la pena di un mondo liberal-democratico solo all’apparenza, in cui è un diritto di ciascuno poter contare su almeno quindici minuti di celebrità.
Forse è per questo che quel giorno, durante la passeggiata nei bellissimi Giardini della Biennale, ho provato pena per gli artisti espositori, per i ragazzi in custodia dei loro lavori e anche per me, per noi spettatori paganti di uno spettacolo vuoto. Tutti simili in un mondo deprivato di senso, inconsapevolmente incatenati in una comunicazione orizzontale che crediamo libera e che invece è fertile terreno di coltura delle grandi organizzazioni riconducibili a centri di potere economico; capaci, loro, di indirizzare e convenientemente sfruttare le nostre insulse prospettive, i nostri smodati desideri, perfino i nostri, sempre meno veraci, piaceri.
27/06/2019 Filippo Maglione