Libertà e perline colorate
Tutti, sin da bambini, ci siamo sentiti ripetere l’indispensabilità di almeno otto ore di sonno consecutive per evitare un’esistenza da minorati sofferenti e disadattati. E, si sa: se qualcuno ci convince che una certa azione ci farà star male, si starà male senz’altro, a prescindere da detta azione. Cosi si è sedimentato un pregiudizio di massa cui dà manforte un argomento più difficile da esternare. Una vita notturna in solitaria costringe infatti a trovarsi davanti “l’esistenza in quanto tale a confronto con il tempo in quanto tale” - confronto che quasi sempre si traduce in noia. Così, nell’immaginario collettivo, le otto ore filate di sonno per notte hanno finito per offrire una comoda parentesi di vita passiva capace di scongiurare minorità e sofferenze, oltre a limitare la noia: il passo d’inizio di giornata per sentirci “normali”.
Detto che il pregiudizio si smonta facilmente anche senza interpellare grandi scienziati - sebbene già Umberto Veronesi anni addietro ritenesse sufficienti un paio d’ore di sonno per notte se davvero ristoratrici - per scongiurarlo alla radice basterebbero semplici dati oggettivi sotto gli occhi di tutti: otto ore di sonno rasentano la letargia causando rimbambimento piuttosto che ristoro, e ognuno guardandosi allo specchio la mattina (senza pregiudizi) avrà la più lampante delle conferme.
Probabilmente (e qui invece iniziamo a ragionare per illazione) la martellante campagna montata a difesa della letargia ha una sua precisa ragione strumentale, nel sempre squilibrato confronto tra sudditi e potenti, essendo molto più semplice gestire un’umanità mediamente tarda e imbambolata, piuttosto che vigile e reattiva. Ed è curioso che a tutti sfugga come un numero spropositato di potenti si sia sempre vantato, e a tutt’oggi si vanti, di dormire poco o nulla, pur perorando, magari per interposta persona, il sonno degli altri. Dettaglio che dovrebbe giusto destare qualche sospetto.
Per quanto riguarda l’altro problema che si accompagna all’insonnia, ossia la noia, sarebbe sufficiente imparare a nutrire qualche passione, possibilmente non troppo rumorosa, da praticarsi nottetempo in solitudine. Così, incrociando dati e limitazioni, crediamo di poter affermare, con discreta approssimazione al vero, che il miglior antidoto alla letargia sia proprio la lettura dei vecchi e cari libri nel cosiddetto formato cartaceo, non solo perché in grado di neutralizzare in scioltezza perigliose ore di sonno in eccesso, ma anche perché capace di introdurci alla scoperta di mondi, di moltiplicare esperienze, avventure, cognizioni, idee originali, senza spostarci di casa, al sicuro, tenendoci vigili, eretti e reattivi, nonostante tutto, senza annoiarci e senza annoiare nessuno.
L’insonne, di norma, dopo un certo periodo da lettore diventa anche “rilettore”. È fatale tornare ciclicamente sui vari luoghi dei delitti, specie quando se ne sono commessi parecchi facendola sempre franca. Ebbene, di recente due riletture notturne ci hanno sorpreso non poco: un librone letto la prima volta più di trent’anni or sono; un libretto riletto dopo circa un decennio.
Il primo, il librone, è il celebre “Dialettica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno, indefessamente citato dal grande maestro mefistofelico Quirino Principe, quasi sempre con il godibile corollario della recita a memoria del flagrante incipit: «L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura». Un libro che all’epoca ci era parso assai fascinoso ma irrimediabilmente datato, oltre che un tantino confuso e distruttivo. E che ora ci sembra invece puntuale come una cambiale nel decifrare l’essenza stessa della nostra epoca, anzi proprio dei nostri giorni - al di là di qualche esempio pratico un po’ fuori moda a causa della rivoluzione tecnologica nel frattempo intercorsa.
Col famoso “senno di poi” comprendiamo perché la prima volta questo libro abbia potuto sembrarci obsoleto e invece la seconda volta all’ultimo grido, essendo stato scritto negli anni Quaranta del Novecento sotto la coercizione di una dittatura, e invece letto alla fine degli anni Ottanta nel pieno fulgore delle democrazie costituzionali, delle libertà, dei diritti e delle tutele sociali - milieu nel quale abbiamo avuto la fortuna di crescere e di scornarci. Diventa quindi normale acquisire oggi in maniera diversa da allora (dagli anni Ottanta) la continua presa di posizione del duo francofortese riguardo un progresso visto come drammatica alienazione dell’uomo nei confronti della natura e dei propri simili, nella misura in cui non è più possibile un rapporto uomo-natura o uomo-uomo che non sia all’insegna del dominio, e che prevede “la manipolazione dell’uomo da parte dell’uomo, riscontrabile sia nei totalitarismi, sia nell’altrettanto totalitaria società di massa”. Così come ha assunto una coloritura diversa, per lo meno ai nostri occhi, la critica all’industria culturale (“capace di assegnare al tragico un posto preciso nella routine”), che brilla di momenti memorabili come questo: «Il contegno a cui ognuno è costretto per provare sempre di nuovo la sua appartenenza morale a questa società, fa pensare ai ragazzi che, nel rito di ammissione alla tribù, si muovono in cerchio con un sorriso ebete, sotto i colpi del sacerdote. La vita nel tardo capitalismo è un rito permanente di iniziazione. Ognuno deve mostrare che si identifica senza residui col potere da cui viene battuto. Ciò è alla base della sincope nel jazz, che deride l’incespicare e insieme lo erige a norma».
Con i nostri micragnosi occhiali appannati, nel senso di una dialettica dell’illuminismo non possiamo non notare come il culto dell’individualismo (creativo, esuberante, irritabile, ma in un certo senso anche responsabile, sebbene portato a farsi beffe del potere, di qualsiasi tipo di potere) che abbiamo esperito in giovinezza, sia nel frattempo stato tradito. Oggi ci sembra che gli esseri umani agiscano imitandosi l’un l’altro molto più rispetto al passato, che i loro atteggiamenti siano più facilmente calcolabili, e non solo per motivi tecnologici, che le loro opinioni siano più manipolabili. Oggi l’essere umano pare meno un individuo che un elemento della massa. Ci chiediamo quanto c’entri la scuola, in questa deriva, quanto possa aver contato lo strapotere, anche psicologico, del web, e poi quanto (pensiamo molto) abbia influito il perenne stato di emergenza planetario, sorto nel 2001 e mai più declinato con sempre nuove, drammatiche, motivazioni (e la relativa paura indotta dal mainstream, limitatosi a santificare acriticamente il tragico calato dall’alto introducendolo come protagonista assoluto della nostra routine quotidiana).
Il secondo, il libretto, s’intitola “L’identità”, scritto da Milan Kundera alla fine degli anni Novanta, breve racconto dei malintesi tra due innamorati nello stile conciso dell’ultimo Kundera in lingua francese. Lei è una pubblicitaria di successo, lui un precario un tantino disadattato, di quattro anni più giovane. Nella rilettura emerge un terzo personaggio che era stato completamente dimenticato: Leroy, titolare dell’agenzia pubblicitaria, un vecchio trotskista capace di adottare per ogni argomento spinoso una logica tagliente come un bisturi, che conosce Marx, la psicoanalisi, la poesia contemporanea, e che ricorda spesso come nella letteratura degli anni Venti in Germania spiccava una corrente di poesia del quotidiano. La pubblicità, secondo lui, realizza a posteriori quel programma poetico, trasformando in poesia i semplici oggetti della quotidianità. «Grazie alla pubblicità la vita quotidiana si è messa a cantare», afferma Leroy. A cantare cosa? - chiede una collega. «Lo squallore imbellettato. E noi siamo quelli che imbellettano lo squallore». Visione strepitosa, che ci ha strappato il più classico dei sorrisi amari.
Ma non era di questo che volevamo parlare. Ricollegandoci alla Dialettica dell’illuminismo, e in relazione agli ultimi due anni vissuti in regime restrittivo, infelice e omologante, ci ha molto colpito un passaggio dello stesso Leroy, che come pochi altri ci è parso incisivo nell’illustrare la vera essenza di una parola problematica come poche.
«La libertà? Vivendo il proprio squallore ciascuno può essere felice o infelice. La libertà consiste appunto in questa scelta. Ciascuno è libero di dissolvere la propria individualità nel pentolone della moltitudine provando o un senso di sconfitta o un senso di euforia. Quanto a noi, abbiamo scelto l’euforia».
07/04/2022 Filippo Maglione