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Grafica e comunicazione

Semplificare

Ho trovato davvero interessante il modo in cui una società di calcio ha recentemente presentato il suo nuovo logo. Anzitutto mi ha colpito la rilevanza data all’evento, inteso non tanto come l’esibizione di una nuova vestizione, un mero fatto visivo, quanto come una vera e propria epifania strategica, societaria e di mercato. Più nel dettaglio ho apprezzato lo sforzo di dare un senso, e un peso specifico, al nuovo segno grafico come se racchiudesse in una forma compiuta i valori da veicolare con un preciso modus operandi, quasi che il logo stesso ne fosse presupposto, timone, testimone e stella polare: il punto di svolta, il riferimento inviolabile di lì in avanti.

Questa presentazione in pompa magna ha indubbiamente gratificato il lavoro del grafico, non tanto colui, o meglio coloro, che hanno coordinato questo specifico progetto (il noto studio internazionale Interbrand, che di gratificazioni ne riceve già a bastanza) quanto, più in generale, la figura professionale del grafico, interprete e divulgatore dei caratteri e dei valori delle aziende, protagonista di uno snodo sempre più determinante ma spesso giudicato ancora in maniera superficiale, specie in Italia. Leggendo il comunicato stampa viene il dubbio che stavolta si sia perfino andati oltre; ma si sa, nell’epoca del comunicato stampa come unica fonte d’informazione occorre fare la tara dei ridicoli eccessi degli addetti stampa affetti da surreali manie di grandezza.

Sandro Scarpa, un blogger-tifoso, ha sintetizzato sin dal titolo (“Non è un nuovo logo, è la nuova Juve”) il senso dell’intera vicenda; perciò voglio citarlo con larghezza in questo capoverso: “La Juve ieri sera non ha presentato il suo nuovo logo. Semplicemente ha rivoluzionato il modo di fare comunicazione (visiva) nel calcio di alto livello. Un logo è la base di qualsiasi strategia di brand awareness (consapevolezza e riconoscibilità di un marchio, di una impresa) e consente di riconoscere l’azienda con effetto immediato. La Juve ha completato il salto nel futuro con il logo “J” (peraltro la lettera J è stata legalmente blindata per qualsiasi utilizzo commerciale di terzi). In quel logo la Juve ha racchiuso il suo spirito, il suo stile, i suoi colori e la sua italianità vincente (…) aprendo strade nuove, nette e con orizzonti aperti. Il logo non deve piacere. Non deve piacere soprattutto a noi (già) tifosi. Il logo non deve essere un esercizio iper-fantasioso. È la centralità del logo a rivoluzionare il campo. Distintivo, riconoscibile, essenziale. È una J, ed è subito e solo nostra. Le reazioni italiane solo le solite: i media tirano fuori le copie, i plagi, i tifosi infuriati ironizzano su un’idea non compresa, non analizzata, troppo avanti. Il nuovo target, i millennials, il mercato asiatico (a cui il logo occhieggia, riprendendo quasi l’ideogramma cinese di “Forza” e “Valore”), cosa preferirà?”.

Anche qui saltano all’occhio un paio di esagerazioni palesi. Che sia possibile “legalmente blindare” una lettera dell’alfabeto, rientra nei deliri di onnipotenza tipici dei tifosi di calcio; così come la convinzione che un segno possa rappresentare lo stile italiano riprendendo ideogrammi cinesi. Ma insieme a simili amenità, il tifoso-blogger mette in campo una serie di considerazioni tutt’altro che peregrine che raccontano in maniera finanche brutale quanto decisiva sia oggi l’identità, e il carattere, di un logo all’interno del villaggio globale stracarico di segni per lo più indistinti, privi di vera identità e di carattere. Racconta anche quanto la semplicità, la riconoscibilità, la rilevanza e l’impatto siano gli obiettivi di chi si proponga di non annegare nel mare magnum visivo a cui siamo sottoposti ogni giorno frequentando il web, sede permanente, e non più così virtuale, delle nostre vite.

E il logo? È davvero brutto come afferma buona parte della tifoseria? All’inizio sono rimasto spiazzato. D’istinto mi sono detto che somiglia troppo a un marchio-moda; che svaluta il valore della storia e della tradizione; che si sradica sia dal territorio che dall’ambiente di appartenenza; che tende a scimmiottare un ideogramma risultando posticcio e sin troppo globale. L’ho trovato anche visivamente precario, senza un vero punto d’equilibrio. Niente di buono, insomma. Poi però, il giorno dopo, ho avuto modo di vederlo applicato, replicato, contestualizzato. La sua semplicità mi ha avvinto, conquistato (devo precisare che questi sono appunti esclusivamente professionali perché quel simbolo, a livello personale, rappresenta già un segno negativo, legato com’è ai disvalori tipici delle società calcistiche, e di quella in particolare). L’ho trovato un segno riconoscibile, rilevante e impattante. Un segno anche sincero, che in modo singolare comunica un paio di caratteristiche peculiari di quella società e di quell’ambiente, quali la strafottenza e la megalomania. Un lavoro che infine trovo centrato, esemplare. Come detto la sua semplicità, soprattutto, mi ha convinto, una semplicità che scava un solco rispetto alla concorrenza. Funzionerà? I presupposti ci sono tutti ma come sempre ai posteri spetterà l’ardua sentenza (ai posteri e al campo: dipenderà anche da quanto vincenti saranno le squadre che negli anni lo apporranno al petto).

A proposito di semplicità. La semplicità ha una possibile, e sfortunata, controindicazione, legata al rischio del plagio inconsapevole, involontario. Noi grafici lo sappiamo bene: più si minimizza, più si rischia di somigliare ad altri. Ma oggi, nella confusione dei segni, è quasi sempre un rischio da correre, pur con tutte le cautele del caso. 

Sempre più spesso ci troviamo ad affrontare il problema di come donare carattere e personalità tramite la semplificazione. A volte la semplificazione sconcerta il cliente (così come ha sconcertato me e i tifosi bianconeri). Alcuni tendono a rifiutarla di netto, interpretandola come un segno di debolezza, di mancanza di creatività. Altre volte, invece, assistiamo al percorso descritto prima: una progressiva comprensione, e relativo apprezzamento, che in breve diventa una sorta di “fiducia da riporre” in un segno che magari si continua a non recepire fino in fondo. Credo che l’assimilazione progressiva della semplicità sia un percorso naturale proprio perché si propone di racchiudere la complessità in pochi tratti. La semplicità, che è sempre l’approdo del grafico ben intenzionato, è nient’altro che il distillato di una messe di dati complessi, un concentrato, perciò ho parlato anche di fiducia: nel passaggio dalla complessità alla semplicità difficilmente può essere compreso tutto ciò che ci aspettiamo dal racconto di una marca, e dai pregiudizi che abbiamo maturato, negli anni, verso la stessa

Con i segni semplici ma non banali credo succeda quel che capita a volte con un brano musicale all’apparenza semplice ma non banale, che riesce a essere inteso solo con ascolti successivi, una volta metabolizzato l’intreccio. Posso parlare in prima persona di questa esperienza di acquisizione progressiva dei segni semplici, e posso farlo con due esempi diretti, oramai storicizzati: il logo Pinarello (la P stilizzata) e il logo Alajmo (la J stilizzata, a proposito di come la J sia stata a nostra disposizione ieri e di come potrà esserlo anche domani, pur non essendo juventini). Loghi che rimontano all’inizio degli anni ‘90 e all’alba del nuovo millennio, perciò piuttosto datati. Nelle rispettive epoche segnarono un cambio di prospettiva nei settori di riferimento. Nel mondo del ciclismo la situazione era simile a quella delle attuali società di calcio, con un profluvio di simboli quasi sempre arcaici, ripetitivi e complessi. Nel mondo dell’alta gastronomia, dominato dalle firme calligrafiche, il logo praticamente non esisteva. In entrambi i casi il lavoro svolto non fu il risultato di una vera e propria commissione, di una strategia pienamente condivisa: mi trovai a convivere con due anime, una rivolta alla tradizione, dei padri; una rivolta all’innovazione, dei figli. Così raccolsi le sollecitazioni dei figli e proposi loro i rispettivi loghi che rappresentavano, ai miei occhi e in maniera sintetica, una certa parte del loro carattere e della loro volontà (di eccellere, distinguersi, spiccare). In entrambi i casi passò parecchio tempo tra la proposta, l’accettazione e la messa in opera esecutiva del nuovo logo. All’inizio, infatti, quei segni lasciarono un po’ perplessi i miei interlocutori. In entrambi i casi mi dimenticai delle proposte, rimaste ad ammuffire in silenzio. Finché, dopo nove mesi nel primo caso, dopo sei mesi nel secondo, mi fu detto da loro, dai figli, che era finalmente arrivato il momento della novità, dello spartiacque segnato dal nuovo logo. Sorprendendomi d’essere convocato per discutere di qualcosa che credevo finito per sempre nel dimenticatoio, in entrambi i casi mi parve di cogliere quel sentimento che prima ho chiamato, forse impropriamente, fiducia (verso una certa forma di semplicità). Metabolizzare un segno semplice può rivelarsi una questione complessa, per paradossale che sembri. 

Ho coscienza di quanto un logo possa condizionare un’impresa, di come possa diventare motivo identificante, segno di riconoscimento, persino di vanto, sia per chi ci lavora, sia per chi ne fruisce. Ideare segni per realtà produttive e commerciali e poi vederli tatuati sulla pelle delle persone come segni identificanti, sconcerta e inorgoglisce, di certo fa pensare. Non occorre scomodare i mitici brand dell’alta moda: chiunque, con poco, può dotarsi di un segno forte, connotante, identificante. Serve semplificare il tratto, anzitutto. E poi servono altre semplificazioni legate al tempo, alla fiducia e alla pazienza - che a tutti noi sembrano sempre mancare.

23/02/2017 Filippo Maglione