Da tempo seguo con attenzione Alfonso Berardinelli, “polemista colto e raffinato, che ha fatto della critica della cultura il suo privilegiato campo d’azione”, come indicato, con sagacia, da Wikipedia. Spesso si scaglia contro qualcosa o qualcuno, e perciò potrebbe essere confuso per uno dei tanti convenzionali, e vacui, bastian contrari. Ma, a differenza di questi, Berardinelli scagliandosi riesce a sfoggiare un metodo limpido e preciso, sorretto da argomentazioni ben scandite e conseguenti, quasi sempre inoppugnabili. Il suo metodo è dialettico e la sua arte maieutica - non a caso si serve spesso della domanda, a volte retorica, a volte brutale, posta direttamente al lettore. In questo modo, grazie all’ardore accoppiato all’equilibrio, alla fine sembrano ovvie molte delle sue conclusioni, anche quando non lo sono per niente (una capacità rara, essere davvero convincenti con ardore ed equilibrio: oggi l’ardore ha da essere urlato e ben poco argomentato, altrimenti lascia spazio a qualcosa di veramente pericoloso, al ragionamento; e se non è sguaiato sembra sempre remissivo).
Berardinelli critica aspramente un mito intoccabile: il progresso. Si chiede, e ci chiede: “Credere o non credere nel progresso? Quando l’abbiamo inventato? A proposito di che cosa? Progresso materiale, o morale, o sociale?”.
Domande che sembrano stupide, ma che non lo sono per niente, appunto. Anzi, l’ultima è la domanda decisiva, la più drammatica, pur sembrando retorica (ho il dubbio infatti che più di qualcuno consideri i tre termini posti in gioco semplici sinonimi), una domanda a cui il mondo ha già risposto da tempo: con la scusa del fallimento delle utopie non resta che il progresso materiale, a sancire il senso stesso dello stare al mondo. Da qui, con poche calibrate parole, Berardinelli attiva una parabola che si risolve in una semplice domanda, l’ennesima - e forse l’ultima a noi concessa.
“Il dèmone o l’angelo del miglioramento, dell’autoperfezionamento, della lotta per difendersi dalla Natura e per controllarla, abitò in noi dal momento in cui facemmo la nostra comparsa sul pianeta Terra. Ma se è chiaro l’inizio, non sono chiari il fine e la fine, l’esito, la meta, il punto e momento in cui oltre non si potrà andare. O andremo anche oltre? Che aspetto potrà avere l’inarrestabile superamento di ogni limite? C’è un limite? Chi lo ha stabilito? Oggi tra funzioni automatiche di calcolo e mente umana è in corso una competizione il cui esito è già previsto: l’homo sapiens è meno veloce e meno efficiente delle macchine che sa concepire, produrre e immettere nel mercato. L’uomo non solo è antiquato, è una fastidiosa fonte di errori, di lentezze e sofferenze indesiderate. Il progresso umano, dunque, per essere progresso cercherà di essere sempre meno umano. È vietato riflettere su questo?”
12/12/2017 Filippo Maglione