Già sapevo delle polemiche scatenate all’inizio degli anni ‘70 nel momento stesso in cui venne resa nota la natura del progetto scelto tra i 681 iscritti al concorso bandito dalla presidenza della Repubblica francese per l’erezione di un centro culturale nel cuore di Parigi. Non sapevo però che i progetti sottoposti ai 10 componenti della giuria erano stati vincolati all’anonimato e che i primi a meravigliarsi della paternità del visionario progetto vincente furono proprio i giurati: sia Renzo Piano che Richard Rogers erano emeriti sconosciuti alle prime armi. Soprattutto non sapevo che i due giovani architetti nello sviluppo seguente all’assegnazione ufficiale, presi nel vortice delle feroci polemiche scatenate da gran parte dell’opinione pubblica francese che non accettava di “veder deturpare il centro storico da una squallida raffineria”, attuarono una drastica revisione estetica del progetto originario, cercando di edulcorarlo, di renderlo carino smussando spigoli, ammorbidendo contrasti.
Tutto questo l’ho appreso recentemente in un agile documentario di Sky Arte HD, in cui la gestazione del Centre Pompidou viene scandita passo passo, da oggetto ripugnante e pietra di scandalo a luogo nevralgico e rappresentativo di una nuova era. Più di tutto mi ha incuriosito proprio la revisione del progetto originario vincente, testimoniata dal modellino presentato al pubblico dagli stessi artefici. Si tratta di un momento drammatico, dimostrazione di sorprendente e inaspettata debolezza da parte di due professionisti che oggi stimiamo unanimemente tra i geni dell’architettura d’ogni tempo. Questo “momento fatale” scandito da quell’insulso modellino mi ha impressionato. Certo, oggi quella revisione ci appare come una negazione, un aborto insensato, anche perché nel frattempo la versione originale è entrata nell’immaginario collettivo. Ma è innegabile intendere ridicolo il tentativo di smussare le asperità per rendere “carino” quello che a tutti gli effetti era stato concettualmente pensato come un “monstrum” (l’apparire di un prodigio in contrasto con l’ordine naturale). Nel documentario viene inoltre rimarcato come quella sventurata revisione portò anche problemi d’altra natura: alcuni rivali inoltrarono ricorso per la distanza tra il progetto vincente e quello che in realtà sembrava stesse andando a realizzarsi. Sulla spinta di questa pericolosa pendenza i nostri eroi in breve rinsavirono tornando a essere i Piano e i Rogers che conosciamo, finendo per rinnegare la revisione e licenziando infine un progetto conforme all’originale, alla faccia delle polemiche e delle ripulse dell’opinione pubblica.
Ho ripensato a quante volte, subendo pressioni esterne, mi sono trovato mio malgrado a revisionare progetti motivati, coerenti e compiuti, solo per poterli salvare, per poterli portare a termine. A quante volte presentando due proposte alternative mi è stato chiesto di prendere parte dell’una per trapiantarla nell’altra - dovendone sopportare le scontate crisi di rigetto. A quante volte ho dovuto aggiungere qualcosa di incongruo - quasi mai a togliere, perché in genere è la pulizia formale, la semplicità, che lascia perplessi. A quante volte ho dovuto smussare spigoli, ammorbidire contrasti. E quindi mi sono un po’ rincuorato assistendo alla vicenda parigina. Se è successo a due giganti perché non avrebbe dovuto succedere a un pigmeo?
Di questi ibridi restano tracce anche nel nostro portfolio. Tracce che forse farei meglio a dissolvere, invece di esporle al pubblico ludibrio. Quel che consola però è constatare che con gli anni abbiamo regolato il nostro lavoro a una sempre maggiore collaborazione preventiva col committente, alla massima apertura in fase di conoscenza e confronto, così come durante lo svolgimento della proposta, per arrivare però a considerare l’esito di questo tragitto, il progetto finale, con maggior rispetto, perciò ritoccabile solo a ragion veduta e solo verso un accertato accrescimento di senso, di bellezza, di pulizia formale. Insomma, da tempo le proposte maturate in Helvetika, frutto di un confronto dialettico preventivo davvero serrato, non sono più molto negoziabili ex post. È una forma di rispetto di sé, ma è soprattutto una forma di rispetto verso il buon esito del lavoro, quindi di rispetto verso il cliente. Un messaggio rimasticato finisce per essere sempre mediocre, scollato, non incisivo.
Questa dinamica negli anni ha accresciuto di molto l’autostima e il morale dei componenti lo studio. Un lavoro ben svolto, compiuto, coerente, non deturpato, non rimasticato, di per sé è già un lauto compenso. Fa sentire vivi, svegli, teste pensanti; fa sentire un singolare accordo tra il ritmo della propria vita e quello del mondo. Se ripenso ai momenti in cui ho potuto dar corpo assieme ai miei eccellenti colleghi a lavori soddisfacenti, non posso non ripensare a qualcosa legato al concetto stesso di felicità. E se non si è trattato di felicità - ché forse non è di questo mondo - sono comunque stati momenti in cui ho potuto capire un po’ meglio chi sono, senza vergogna. Non è poco.
16/06/2015 Filippo Maglione