Parlando con un collega dei cosiddetti “bei tempi andati” ci siamo divertiti a individuare un punto di rottura, un punto di svolta nella nostra professione. Ed è così che ho scoperto di aver partecipato, senza alcuna consapevolezza, a una vera e propria rivoluzione, che come tutte le rivoluzioni che si rispettino ha avuto un’esplosione drammatica e sanguinosa.
Fondai questo studio precisamente nel periodo del drammatico passaggio, in coincidenza della svolta epocale. La grafica pubblicitaria, proprio in quella manciata d’anni a cavallo tra la fine degli ‘80 e l’inizio dei ‘90, da lavoro d’élite a contenuto artistico e molto ben remunerato, diventava banale e meschina occupazione di massa, tremendamente sottopagata. Improvvisamente tutto crollò. Il mondo della scuola si era messo a vomitare schiere di cosiddetti grafici, ignoranti e impreparati ma intraprendenti e velleitari come non mai. Contemporaneamente faceva capolino il computer. Questo mix esplosivo portò a un vero e proprio massacro. Non occorre molta fantasia, basta mettere insieme menti mediocri, convinte di valere più di un Leonardo da Vinci, con un mezzo perverso e pervasivo quale il computer, che al suo apparire pareva dovesse colmare qualsiasi mancanza e lacuna. E il gioco è fatto. Ho sentito, in quei giorni, grafici tutt’altro che impreparati affermare che il Mac sarebbe stato in grado, da solo, di colmare qualsiasi lacuna, vuoto culturale, mancanza di fantasia. Siccome era davvero quello il pensiero dominante, si fa presto a capire perché un’intera generazione sia capitolata in quel modo, e perché un’intera categoria sia collassata nel breve volgere di una sola generazione.
Sparirono i ristorni d’agenzia, ma era nell’aria da tempo, e già per questo gli onorari si ridimensionarono di brutto. Poi si scoprì che con l’imporsi del computer, che avrebbe dovuto risolvere ogni questione con un click, i problemi di fondo rimanevano intatti, irrisolti, solo molto più cari di prima (a quel tempo hardware e software costavano un botto, costringendo a mutui esagerati). La macchina però velocizzava tutta la parte pratica, esecutiva. Così i tempi di lavoro si fecero sempre più serrati, erodendo il tempo dedicato al pensiero. Era tutto un fare precipitoso, un produrre insensato, un buttar fuori mediocrissime risoluzioni prive di un vero progetto, di un vero pensiero. Ci ritrovammo tutti senza budget e senza più margini, con montagne di lavoretti da liquidare alla svelta.
Ecco tratteggiata a spanne la cornice in cui mi sono ritrovato a operare. È stata una sfortunata fatalità e niente più, ma se avessi dovuto scegliere il periodo peggiore per inaugurare un’impresa nel campo della grafica pubblicitaria non avrei potuto fare di meglio. Il 1989 è stato esattamente l’anno fatale. A quell’epoca lavoravamo ancora in camera oscura e con i trasferibili Letraset, con i fogli Pantone e le forbici, con i pennelli e con i rapidograph, con i taglierini e la colla spray, con la fotocopiatrice e l’aerografo, ma già il computer aleggiava sopra le teste, o meglio, sopra i cervelli di ognuno. E un paio d’anni dopo ci ritrovammo di fronte a uno schermo muto, sorta di cervelletto di riserva pro capite, strumento per l’igiene mentale, sterilizzatore del pensiero, apportatore di un solo reale beneficio: avevamo sempre le mani pulite.
Non voglio però fare lo stesso errore di Socrate, che nell’invenzione rivoluzionaria della scrittura vide solo una fonte di danno cognitivo e morale (che ha come effetto la dimenticanza): ogni rivoluzione genera violenti sconcerti e pregiudizi, e perfino lui ci è cascato. Memore della sua lezione cerco perciò di allargare l’orizzonte e limitare i preconcetti. Così mi sento di poter dire che l’avvento del computer ha portato anche indubbi benefici, una volta stabilizzato il sistema e presa coscienza delle potenzialità e dei limiti dello strumento. E, pur paradossale che sembri, il beneficio maggiore riguarda giusto quel nobile esercizio antico, la scrittura. Credo infatti che l’uso del computer abbia favorito non poco la progressiva ed esponenziale intensificazione dell’atto dello scrivere (parola che uso nel suo ampio significato, che comprende quindi il battere tasti davanti a uno schermo luminoso). Si scrive molto più di prima, e questo è senza dubbio un bene, un gran bene, con buona pace di Socrate. Non mi soffermo sulla qualità - che non dipende quasi mai dal mezzo - ma già il solo scrivere, il fissare pensieri, credo sia utile presupposto alla comprensione, che è presupposto al miglioramento, a qualsiasi tipo di miglioramento.
Herta Müller afferma che nessuno può prevedere quale rivelazione abbiano in serbo le parole prima che siano scritte. Dice anche che una cosa scritta non è mai una cosa che si sarebbe potuta dire e che quel che è scritto è proprio quello che non si poteva dire e non veniva neanche in mente di dire. Dice che lo scrivere proviene dritto dal pensiero e poi manda al pensiero qualcosa di nuovo, un’illuminazione, la conquista di un senso che a priori non era ipotizzabile.
Io non solo concordo con Herta, rincaro la dose e affermo che le uniche cose (sul serio: le uniche) che credo di aver capito del mondo, degli uomini, ma soprattutto di me stesso, le ho capite solo scrivendo, esercizio che mi è stato facilitato non poco da questo strumento che per molte ore ho sotto mano e davanti agli occhi. Sì, lo stesso macchinario di prima, con uno schermo muto, sorta di cervelletto di riserva pro capite, strumento per l’igiene mentale, sterilizzatore del pensiero.
02/02/2016 Filippo Maglione