Lavorare a Venezia è meno un privilegio che una pena. È una città che impone di ripensare il tempo, come qualcosa di assolutamente nuovo e inatteso. A Venezia tutto si dilata, anche il respiro. L’ideale per evadere, per ricrearsi, insomma. Ma Venezia può rappresentare il massimo del disagio per chi è assuefatto all’apnea cui costringe il lavoro in terraferma, con i suoi ritmi dettati dalla tecnica, a cui ormai siamo soggiogati come tanti schiavi-soldati dediti al profitto ad ogni costo. In questi ultimi mesi mi è capitato di doverla ancora una volta frequentare, Venezia, e con una certa assiduità, per seguire da vicino i lavori del Grancaffè e Ristorante Quadri, in Piazza San Marco. Ed è stato come tornare a respirare pur lavorando. Lavorare e contemporaneamente respirare è qualcosa che mi ha fatto tornare all’epoca dei trasferibili, della reprocamera, del rapidograf, del curvilinea; oggettistica d’antiquariato sconosciuta ai grafici under 40. È stato come tornare agli albori della grafica, agli inizi del mio percorso professionale, ai briefing di un giorno intero passati accanto a un buon bicchiere di rosso o davanti a qualche opera d’arte, così, per prendere ispirazione (magari al Peggy Guggenheim, confortevole rifugio sin dai tempi d’Accademia). Pensare e lavorare con lentezza. Solo sprazzi di tempo antico e dilatato, per carità. Rapidamente ci si sveglia dal sogno e ci si chiede di soprassalto: ‘Cosa sto facendo, sto sprecando il mio tempo... perché, per cosa?’. E non ci si accorge che invece stavamo solo lavorando senza smettere di continuare a essere esseri umani. In una città magnifica, pergiunta. Privilegi purissimi.
Tra le tante amene vicende veneziane di questi mesi, una in particolare mi preme ricordare. Perché non capita spesso d’imbattersi in un vero genio. E quando capita è bene fissarlo nella memoria, magari solo per sottolineare la nostra fortuna e non solo, e sempre, la nostra presunta malasorte (che in verità è solo ingratitudine cieca). Il genio di cui sopra l’ho intravisto la prima volta di lontano, ai tavolini del Quadri. Un’originale ed elegante figura d’anziano, indaffarata su libri e fogli sparsi sul tavolino dell’angolo più remoto del Grancaffè. Alla mia discreta richiesta d’informazioni un cameriere ha sibilato: “Un professore di sanscrito che ha adottato il Quadri come studio professionale”. Ero di fretta, e il professore sin troppo indaffarato, ma è stato lo stesso patron del Quadri, Raffaele Alajmo, senza che sapesse nulla di questo nostro fugace incontro di lontano, ad organizzare un pranzo pochi giorni dopo (particolare non secondario che dimostra ancora una volta la sensibilità e l’acutezza di questo finto-burbero). E fu così che mi ritrovai faccia a faccia col genio, al primo piano delle Procuratie, degustando assieme prelibatezze e Barolo, in un magnifico giorno di tepido sole veneziano.
A proposito di non-assimilati.
Chi è Franco Rendich? Nella sua vita è stato via via uomini diversi, ma oggi lo si può definire senza ombra d’enfasi un ottantenne veneziano che sta riscrivendo la storia delle nostre radici culturali. Non sembra abbastanza? Allora aggiungo: uno studioso di sanscrito che ha da poco redatto (e sta rieditando) un Dizionario di Indoeuropeo-Sanscrito-Greco-Latino ch’è un’opera visionaria ma non per questo priva di credibilità. Tutt’altro. Il lavoro sulle fonti è infatti maniacale e affonda nei più antichi testi di sanscrito, conosciuti a menadito per linea diretta. Ha studiato per trent’anni l’argomento e da un lustro ha cominciato a pubblicare, dapprima un paio di libri introduttivi, comunque vasti, infine questo Dizionario Indoeuropeo, che vero e proprio dizionario non è; può infatti essere letto come un saggio che scava nelle viscere delle tre grandi lingue classiche per andare alla ricerca dei significati dei singoli suoni dell’indoeuropeo. Per Rendich infatti il significato delle parole non nacque, come si è sempre creduto, in modo astratto e arbitrario, bensì unendo due o più idee-base rappresentate dai suoni delle consonanti e delle vocali, ciascuno dei quali dotato di un particolare valore semantico, governati da precise regole associative. Inoltre smentisce l’idea, storicamente radicata, secondo la quale la vita culturale e civile di noi occidentali abbia avuto origine con l’opera dei pensatori greci e latini, perché la mente e l’anima che ispirarono le nostre parole non venivano dalla Grecia o da Roma, ma da una patria indoeuropea posta molto più a nord, addirittura più a nord del Circolo Polare Artico. Gli Indoeuropei, i nostri progenitori, prendono vita per la prima volta, grazie a lui, attraverso i singoli suoni della loro lingua. Pare di vederli, infreddoliti, gesticolando e articolando suoni, quelli che poi sarebbero diventati i nostri suoni, per stratificazioni successive. Un’emozione incomparabile per chi, come me, gode da sempre nello scavo dell’etimologia, sin qui relegata al greco e al latino; due lingue che grazie a Rendich sentiamo più vicine, meno antiche, e di sicuro non più così generative... Un libro estremo, radicale, come non se ne sono mai visti, che sarà recepito appieno solo dalle generazioni future, come si conviene alle opere visionarie dei veri genii senza tempo.
Gli accademici contestano le sue conclusioni, ovviamente, ma a denti stretti, stizziti, arrabbiati nel vedere quanto le intuizioni di questa vecchia lenza reggono alle prove dei riferimenti e delle fonti. Le sue inferenze, che ovviamente possono essere solo tali, visto che manca una linea di continuità tra la lingua madre (indoeuropeo) e le sue derivate, sono praticamente inattaccabili, per cui l’unica manovra d’attacco è screditare in toto il suo lavoro, la sua persona, con l’unica motivazione che “non rispetta le acquisizioni maturate nell’ultimo secolo in ambito accademico”. La solita solfa degli accademici rinchiusi nella torre, insomma. Come se non sapessero, loro che giocoforza hanno pur dovuto studiare la storia del progresso scientifico, che l’unico modo per progredire è proprio “non rispettare troppo (ovvero non lasciarsi inibire da) ciò che è già stato acquisito”. Senza per forza dover scomodare Kuhn o Feyerabend.
Ma, come dicevo all’inizio, Franco Rendich è dell’altro ancora, e altrettanto notevole; pare incredibile, viste le premesse. Un conversatore brillante senza pari, che in un baleno e in continuazione è capace di sfoderare concetti essenziali e spesso esiziali (per l’umanità inconsapevole e babbea). Capace di metterci a parte di una sapienza estesa, multiforme, trasversale e soprattutto facile da rendere pratica. La sua è a tutti gli effetti una sublime critica della ragion pratica, che spesso affronta con spaventosa lucidità l’inconciliabile conflitto uomo-donna. Impagabile per esempio la sua teoria dei quadranti cuore-mente-sesso-economia; quattro entità distinte cui la donna resta soggiogata di volta in volta durante la sua vita. Troppo lungo delucidare le sue teorie, tutte caratterizzate da appassionata consapevolezza e ironia (e massicce dosi di autoironia). Si starebbe ad ascoltarlo per ore; alla fine, immancabilmente, ci si sente più intelligenti. Magari non migliori (o peggiori), di certo non più buoni di prima. Ma più intelligenti sempre.
27/01/2012 Filippo Maglione