Immaginate un amico che vi dice di aver inventato una colla che non incolla. Naturalmente pensereste a uno scherzo. Ma lui spiega che no, non è uno scherzo, che la colla che non incolla gli risolve il problema di segnare le pagine del libro dei canti della messa domenicale, rinforzando quel tanto che basta la presa dei foglietti segnalibro. Quel tanto che basta perché non si sfilino e disperdano, affinché lui possa passare agevolmente, molto più agevolmente degli altri componenti del coro, da un brano all’altro. Quel vostro ipotetico amico a cui all’inizio avreste dato del burlone o del pazzo è in realtà una persona realmente esistita, si chiama Arthur Fry ed è l’inventore del Post-it, i foglietti che incollano ma non troppo, che restano appiccicati ma sono rimovibili facilmente su carta e quant’altro. Oggi Post-it è un brand universale, prodotto da 3M; offre 55.000 differenti prodotti, tutti emanazione di quel pensiero originario.
Quel che affascina di più in questa storia è l’attimo in cui, magari in chiesa, il buon Arthur avrà pensato “concretamente” l’idea che da chissà quanto tempo, consciamente o meno, vagava per la sua testa. L’attimo decisivo, la scintilla. A ripensarla oggi è un’idea banalissima, un nonnulla. E invece semplicemente prima di allora... non c’era, o quanto meno non s’era concretizzata, per cui fattivamente non c’era. È il filosofo della scienza Matteo Motterlini che stimola questa riflessione, che coinvolge, bene o male, anche il nostro lavorìo quotidiano.
In questo periodo siamo impegnati in un paio di cosiddetti startup, ovvero nell’avvio di un paio d’imprese. Nello specifico per noi uno startup equivale alla creazione di un nuovo brand, quello che una volta, quando la lingua italiana era ancora in vita, veniva chiamato al femminile: marca. Si tratta sempre di lavori stimolanti e complessi (nello specifico ancora in fase di sviluppo e non presentabili al pubblico). Funziona più o meno così: il committente ha un prodotto o anche solo una struttura produttiva, senza quindi un prodotto ben definito, e chiede che venga ideato un nuovo nome, un logo, un’immagine coordinata e un modo per comunicare al mondo tutto questo. Tappe di creazione di una marca, qualcosa che si spera possa essere facilmente riconoscibile al grande pubblico, che prima non c’era e che prende forma all’interno delle nostre teste.
Per inciso, è sempre l’inizio, ovvero il nome, lo scoglio più arduo da superare. Esistono vincoli e preclusioni che fanno sì che la gran parte dei nomi “ideali” siano inutilizzabili in partenza, perché affini o uguali a marche già esistenti. Le sigle sono da scartare, i nomi lunghi pure, quelli difficili da pronunciare ovviamente vanno evitati, i banali e i triviali banditi... Diventa ogni giorno più difficile trovare nomi possibili. Nomi come tartufi in ambienti torridi e siccitosi. Ma a volte scatta la scintilla, ed è un nome semplice che appare il più giusto. Sono dell’idea che il nome più giusto di tutti si avvicini al più banale, quasi sempre solo apparentemente tale; e quando è così è sempre già usato da altri, pur troppo. Così come sono convinto che l’idea di campagna pubblicitaria perfetta si avvicini alla più semplice, basilare, magari arricchita appena da un lieve scarto di senso verso l’ironia o l’ardimento...
In un lavoro come l’avvio di un’impresa non si tratta quindi solo di scegliere qualcosa (segni, colori, frasi...), si tratta proprio di avere delle idee. Ogni storia dietro a una nuova idea è diversa, ma ogni creazione è uguale: “Non c’era niente, ora c’è qualcosa, è come una magia”. Sono parole, forse un po’ esagerate, di Jonah Lehrer, neuroscienziato americano che ha studiato i meccanismi cerebrali in funzione in momenti come quello vissuto da Fry in chiesa (e da noi, a volte, all’interno di queste mura o, più spesso, altrove - come vedremo). Secondo Lehrer i momenti di rivelazione dell’idea funzionerebbero più o meno così: ci si imbatte in un problema che ci ossessiona e si analizzano tutte le possibili soluzioni. Frustrati, dopo averci provato ostinatamente (essere ostinati è indispensabile presupposto) ci si blocca. Non si vede via d’uscita, si abbandona. Si pensa ad altro, giocoforza, e l’ossessione passa di mente. Ci si rilassa con una doccia, sognando a occhi aperti, oppure passeggiando, tirando di boxe, correndo o, meglio, pedalando. Il sudore agisce infatti da lubrificante per il cervello. Ed ecco allora la soluzione giusta, semplice e inesorabile.
Cos’è successo? Finalmente rilassati si è messo a tacere l’emisfero sinistro che fino a quel momento aveva legittimamente cercato una soluzione in maniera analitica e coscienziosa, senza vederla. Non è infatti quello il suo territorio. Il colpo di genio necessita piuttosto dell’attività dell’emisfero destro, anzi, di una specifica area localizzata un po’ sopra l’orecchio (chi ce l’ha lesionata non capisce le metafore e le barzellette). Quest’area si attiva intensamente per pochi secondi prima dell’epifania. È la lampadina di Archimede che si accende e illumina il collegamento tra la colla che non incolla e il segnalibro che resta al suo posto. Il colpo di genio è inoltre anticipato da onde Alpha, che sono indotte appunto da attività rilassanti e che sono soppresse da caffeina, anfetamine, cocaina e altri stimolanti, cioè da quanto migliori la concentrazione. Infatti essere concentrati sui dettagli è solo un preliminare ma è esattamente ciò di cui non abbiamo bisogno quando occorre trovare nuove relazioni tra elementi distanti tra loro.
Ecco che così, tramite lo studio di Lehrer (illustrato nel recente saggio “Imagine. How creativity works”), si è delineata la natura dell’idea cosiddetta geniale. Che però, come tutto in questo nostro mondo, non è vero che esca dal nulla; è solo un mettere insieme, in connessione, un disporre in modo nuovo ciò che da tempo o addirittura da sempre avevamo sotto al naso o in giro per la testa.
Lo dico sottovoce per non aizzare i clienti: coi tempi che corrono ci vuol poco a impugnare preventivi con la scusa che ciò che facciamo non costi fatica.
21/05/2013 Filippo Maglione