Tra le migliaia di lettere ricevute durante la sua folgorante carriera, Maria Callas conservò solo quelle che manifestavano forte dissenso nei confronti della sua persona, della sua voce, della sua arte (quelle d’elogio le leggeva distrattamente senza conservarle). Sorprendentemente si tratta di moltissime lettere, non poche delle quali caratterizzate da violenza verbale, infarcite d’insulti. Molte delle persone che conosco considerano Johann Sebastian Bach un “ripetitivo trapanatore di cervelli”; del resto, prima d’essere rivalutato in epoca romantica, per quasi un secolo fu considerato quasi unanimemente un pletorico e complicato mestierante. Ho conosciuto persone che consideravano il Federer al culmine della carriera “un tennista noioso e lezioso”. Ho sentito più volte appellare i migliori Barolo “imbevibili”, inutilmente complessi. Qualche settimana fa sul domenicale del Sole è apparso un articolo a firma di un noto filosofo in cui Emanuele Severino veniva descritto come un vecchio rimbecillito, un caso da manicomio. Proust fu costretto a pubblicare a proprie spese il primo libro della Recherche dopo aver subito una serie di sprezzanti rifiuti dalle maggiori case editrici parigine. Potrei continuare, citando molti altri nomi per me intoccabili in svariati settori dell’attività umana, non solo artistico; e invece tranquillamente criticati e a volte persino sbeffeggiati, insultati. E uscendo dalle preferenze personali, e quindi coinvolgendo fenomeni più popolari, potrei citare esempi numericamente ancor più clamorosi. Mi limito a un paio, letterari: Stephen King, respinto sistematicamente dal mondo editoriale dal ‘67 al ‘73; e J. K. Rowling, autrice della serie di romanzi di Harry Potter, il più grande best seller di tutti i tempi, che diventò tale solo dopo una ragguardevole trafila di rifiuti editoriali, otto, per l’esattezza.
Ogni volta che qualcuno contesta il mio lavoro mi rincuoro pensando ai geni sopracitati: se anche loro sono stati - e sono - contestati, misconosciuti, stroncati, addirittura sbeffeggiati... be’, io che non sono nessuno devo essere in grado a maggior ragione di sopportare contestazioni e rifiuti, e continuare ad andare avanti con critica serenità. La tentazione di fronte a una contestazione sarebbe infatti sempre quella, nel migliore dei casi: inalberarsi e reagire razionalmente, giustificando le scelte e le relative azioni, il perché di certe risoluzioni formali, estetiche, di contenuto. Inutilmente, perché il diniego è quasi sempre vincolato allo sterile “non mi piace” che non accetta ragioni (nel senso delle motivazioni razionali).
Da giovane m’inerpicavo in scorribande verbali per giustificare tutto, a fronte di quell’idiota “non mi piace”, nel tentativo di far recedere il latore del rifiuto. Opponevo argomenti con piglio folgorato da esperto in materia, capace di sfoggiare una soluzione per ogni problema relativo al mio lavoro. Con l’età però mi è sempre più chiaro che gran parte di questo nostro benedetto lavoro si regge non su entità misurabili, quanto su opinioni sottili, marginali, arbitrarie e perciò incontestabili. Oggi quindi lotto molto, molto meno d’un tempo per imporre un’idea, a prescindere dalla sua presunta validità, e proprio perché col tempo ho potuto comprendere la natura di questa ‘presunzione di validità’, perciò di verità. Che è una presunzione, appunto, e nulla più.
Come ci insegna George Steiner tutto ciò che concerne il giudizio valutativo nell’ambito dell’estetica (e del gusto personale - e molto del nostro lavoro si trova racchiuso in questa sfera) è sotto il segno della relatività, dell’arbitrarietà. Si può dire tutto di tutto. Se qualcuno dichiara che il Re Lear di Shakespeare è “indegno di una critica seria” (Tolstoj), oppure che Mozart ha composto solo banalità e che la Callas era una cagna, Bach un trapanatore di cervelli, ecc.., le sue affermazioni sono assolutamente inconfutabili. La loro falsità non può essere dimostrata né con argomenti formali (logici) né per quanto riguarda la loro sostanza esistenziale. Le filosofie estetiche, le teorie critiche, possono solo essere delle descrizioni più o meno convincenti, più o meno generali, più o meno coerenti del percorso che porta a questa o quella preferenza. La differenza fra il giudizio di un esperto in materia e quello di uno sciocco semianalfabeta o ottuso sta nella ricchezza di riferimenti impliciti o espliciti, nella chiarezza e nella forza retorica dell’espressione. Ma questa differenza non può essere dimostrata scientificamente o logicamente. È impossibile decretare che un’affermazione qualsiasi in campo estetico sia corretta o errata. La sola reazione appropriata è l’assenso o il dissenso personale.
Questa forte precarietà di giudizio è quindi parte non marginale del nostro lavoro e come tale va accettata. Sempre e comunque, soprattutto a fronte di critiche immotivate, per il fatto stesso che lo sono quasi sempre, immotivate - e aprendo ogni volta un contenzioso alla lunga si finirebbe solo per sfiduciarsi o incattivirsi, minando a priori la qualità stessa del proprio lavoro, non solo, della propria vita. Evito quindi di entusiasmarmi per i successi e abbattermi per le critiche. Sia i successi che i rifiuti mi sembrano ‘entità accidentali e sospette’ proprio perché manchevoli di giustificazioni serie, di controprove, ovvero di una qualsiasi forma di misurabilità (quanto meno a priori, ovviamente, ossia prima che il nostro lavoro sia ‘misurato’ dal mercato). Accetto gli uni e gli altri con uguale disincanto. L’unico vero successo è la convinzione di aver dato il meglio, aver fatto il possibile con le armi a disposizione. E dare il meglio significa anzitutto cercare di studiare e imparare qualcosa ogni giorno, sempre: unica unità di misura capace di rendere conto del nostro status deontologico, della nostra statura professionale.
03/09/2013 Filippo Maglione