Il bisogno di consumo visuale, prima di noi
Da sempre amo perlustrare il panorama culturale europeo a cavallo tra ‘800 e ‘900, l’epoca folle che si arrese solo alla più grande delle follie, la Grande Guerra. Appassionato della musica forte di quel periodo (in particolare di Richard Strauss e Gustav Mahler) ho recepito, grazie alla lezione di Oreste Bossini, quanto il poema sinfonico, la forma musicale più in voga, fosse un vero e proprio percorso immaginativo. Penso per esempio alla Alpensinfonie (la Sinfonia delle Alpi): immersione dei sensi capace di generare una vera e propria “visione” dei luoghi descritti dalle note musicali e dalla stringatissima, essenziale, traccia del poema. Ed è rivelatorio, a questo proposito, studiare i variegati fenomeni artistici legati all’immagine che si manifestarono dalla seconda metà dell’Ottocento, il moltiplicarsi di situazioni in cui l’aspetto visivo invase l’ambito di altri linguaggi. Una marea inarrestabile, come se nella società si delineasse un crescente bisogno di consumo visuale, una domanda culturale sfociata infine nell’invenzione del cinematografo, che segnò la svolta che avrebbe costituito l’inizio di una metamorfosi culturale in senso visuale, che aveva avuto un precedente storico solo nell’invenzione della stampa.
Cosa vediamo oggi?
Paola Mastrocola fa una domanda che solo in apparenza sembra stupida: Cosa vediamo oggi? Partendo dall’esperienza della visita a una mostra (Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi), mette in risalto quanto siamo imbevuti da ciò che ci sta intorno, stracolmi delle opere che altri hanno appena creato o stanno creando: quadri, sculture, palazzi, incisioni, arazzi, armi, incunaboli, gioielli (e in questo elenco si rivolge ad Ariosto, a ciò di cui si circondava)... Grattacieli, ponti, autostrade, ipermercati, fiction tivù, talkshow, installazioni, film, video su whatsapp, telegiornali, festival, fiere del cioccolato... (e qui si rivolge a noi, a ciò che ci circonda - e mi piace mettere in risalto quanto Ariosto potesse scegliere, almeno in parte, ciò di cui circondarsi, e quanto invece a noi tocchi in sorte, volenti o nolenti). Conclude affermando che siamo intrisi da parole e immagini, farciti come panini, assordati in un perenne disco-bar, insomma, impregnati dal nostro tempo (quanto lo era Ariosto del suo). Ecco perché Ariosto ha creato l’Orlando furioso e noi non riusciamo più a capirlo. Non è tanto una questione di lingua, pur nel frattempo assai modificata, quanto proprio di immaginario. Dipende tutto da quel che abbiamo intorno a noi, da quel che vediamo ogni giorno e ci ritroviamo nella mente quando chiudiamo gli occhi (secondo me dipende anche dal ritmo battente, che sentiamo riecheggiare sempre, anche nei momenti di quiete).
L’attuale iconocrazia
Anna Li Vigni, di recente, mi ha delucidato un concetto che da tempo volevo chiarire a me stesso (riesco a chiarirmi solo lentamente, leggendo e scrivendo, come ai vecchi tempi) che posso riassumere in poche, lapidarie, parole: ci troviamo nel mezzo di una “svolta iconica” che sta delineando una nuova era nella quale è accantonato il primato culturale del linguaggio scritto a vantaggio delle immagini (era che si può riassumere nell’espressione “della cultura visuale”). La cultura visuale parte dal presupposto dell’indistinzione e della manipolazione. Un dipinto, un’icona pubblicitaria, un reportage di guerra, un selfie pubblicato sul web: tutte le immagini, indistintamente, sono proiezioni di un certo sguardo, senza vere categorie e tutte di pari valore (almeno prima dell’eventuale canonizzazione del consenso sul web, nella sua viralità), oggetto di interpretazioni e manipolazioni, suscettibili di innumerevoli interpretazioni a seconda di chi ne fruisca. Siamo immersi in una gigantesca iconosfera che, complice l’ambiente mediatico del web, permette la continua creazione, trasmissione, condivisione, fruizione, rimanipolazione di immagini di ogni genere. Anna conclude affermando che, comunque, nelle intenzioni profonde, in questo dialogo iconico, e nel voler essere rappresentati attraverso un’icona, noi non siamo tanto diversi da quell’uomo pictor che, nell’era del Paleolitico superiore, disegnava figure animali nella caverna di Lascaux.
Clip video e pornografia
Siamo sommersi da clip video. Le riceviamo, le spediamo. Noi le proponiamo ai nostri clienti, loro ce le richiedono. Clip, il mondo è diventato vorace di clip. Si è passati dalle migliaia di pagine di Guerra e Pace, e alle innumerevoli ore necessarie alla lettura, alle quattro ore di Via col vento; poi dall’ora e mezza canonica del film alla mezz’ora abbondante delle serie tivù; per arrivare, ansimanti, alle clip di pochi minuti, o pochi secondi, parenti strette del famigerato spot. La nostra capacità di attenzione richiede questa contrazione di tempo, lo richiede il ritmo che riecheggia nelle nostre teste. Le clip dimostrano che la frammentarietà e l’energia del “sembrar vero” dominano l’immaginario iconico contemporaneo. Clip che per funzionare devono sfruttare linguaggi acquisiti, fatti di convenzioni e cliché, ma rielaborati un pochino, per sembrare sempre nuovi. Non c’è nulla di nuovo. È un nuovo di superficie, e al fondo sempre un unico messaggio legato al successo, per acclamazione o derisione, la versione semplificata del sarcasmo consolatorio. L’esigenza di un realismo radicale, magari con venature magiche (e un po’ taroccato), soddisfa la smania di protagonismo di ognuno, quell’essere dentro alle storie, parte attiva della storia, personale ma grazie al web universale. Una diffusione che non diventa più una questione di mezzo ma proprio di stile. Lo stile è quello del “mostrarsi a tutti” ai limiti della pornografia, intesa in senso estetico - del realismo radicale e senza senso del ridicolo, diffuso senza remore.
“L’imbecillità è una cosa seria”
Questo il titolo di un folgorante pamphlet di Maurizio Ferraris. Nonostante l’imbecillità (degli altri) spesso faccia ridere, sappiamo tutti quanto possa rivelarsi una cosa seria. Lo pensiamo ogni volta in cui la subiamo, soprattutto nell’esercizio della nostra professione. Ma in questo caso la serietà è indirizzata non tanto all’imbecillità in quanto tale, o degli altri, quanto proprio alla nostra. Questa è una cosa davvero seria: ognuno di noi è, chi più chi meno, imbecille (e massimamente stolto è chi crede di non esserlo mai). L’altro giorno mi sono sentito il re degli imbecilli per mezz’oretta buona, per esempio, davanti a un direttore di banca. Alla fine, salutandomi, di me ha certamente pensato: “Ma che razza d’imbecille!” (anzi: gli ho proprio letto l’espressione facciale corrispondente). E la cosa notevole è che quella frase non era denigratoria: l’ha pensata ed espressa, con la sua disinvolta mimica, con assoluta pregnanza, precisione. Era una frase esatta. Magari a parti invertite (io, e non lui, a fare luce su micragnose faccende legate alla materia professionale) l’avrei apostrofato, mentalmente, allo stesso modo. Da quel giorno sarò stato imbecille innumerevoli altre volte, credo, senza averne piena coscienza: con noi stessi siamo sempre di manica larga. Ci consoliamo tutti, io, il direttore, voi, pensando che la nostra imbecillità, mal che vada, sia qualcosa di sporadico. Ma Ferraris va oltre, implacabile. Afferma che l’imbecillità fa da basso continuo alla storia dell’umanità, e i guizzi d’intelligenza e di genio non sono altro che sporadiche interruzioni, all’opposto quindi di quel che siamo portati a pensare. Prosegue, sempre più implacabile (e qui ha catturato tutta la mia attenzione): è sbagliato considerare la tecnologia uno strumento di alienazione, di corruzione della vera essenza magnifica della natura umana, al contrario: la tecnologia - capro espiatorio cui viene attribuito ogni aspetto negativo della storia - semplicemente rivela l’uomo per quello che è: un imbecille. Tanto più potente e raffinata è la tecnica, tanto più forte la voce dell’imbecillità si fa sentire. Ferraris sostiene che il web altro non sia che uno strumento tecnologico che registra, documenta, amplifica l’immane stupidità di massa. Ammette che dagli errori dei singoli imbecilli derivi il progresso di tutta la specie (c’è stato pur qualcuno che per primo ha fatto un bagno tenendo acceso il ventilatore sul bordo della vasca) e alla fine si appella alla coscienza individuale che, stimolata dal senso del ridicolo, dovrebbe cercare con tutte le forze di astenersi dalla propria naturale vocazione all’imbecillità. Ma si appella anche alla cultura, per fortuna, considerata il miglior antidoto alla nostra rovina (la grande diga costruita per tamponare quel mare immenso di imbecillità che è il genere umano) ma anche, potenzialmente, lo strumento per portare l’imbecillità, ahimè, al suo livello più alto, al parossismo.
22/03/2017 Filippo Maglione