Si arrivava in via Zambon de’ Dauli sempre un po’ impazienti, emozionati, a volte col cuore in gola. Come per un figlio neonato, si sperava anzitutto che fosse “sano” (ricordo ancora il dramma di quella volta in cui ci comunicarono che lo sviluppo era andato a male), quindi si andavano ad analizzare le qualità e i difetti, con più calma. Le attese non erano quasi mai soddisfatte. Ma quando succedeva era una gran festa.
Questo è ormai un ricordo lontanissimo. Oggi gli scatti fotografici si scaricano, una volta si sviluppavano, e già nell’intensità e nel significato di questi termini quasi opposti possiamo vederci un segno.
Il lavoro in sala posa oggi è apparentemente lo stesso di allora. In realtà quel lavoro presupponeva un impegno di tutt’altra natura e portata. A un servizio fotografico ci si preparava con cura, parecchi giorni prima. Si progettava il set ben prima di allestirlo, si testavano le luci, le varie fotocamere e le ottiche. Si sceglieva la profondità di campo, il tipo di grana e, in scia a queste, la sensibilità della pellicola. Si discuteva, a volte animatamente, sull’eventuale uso di filtri. Le variabili erano potenzialmente infinite e tutte dovevano adattarsi allo stile con cui di volta in volta si voleva connotare un servizio. Era un lavoro anzitutto di concetto che aveva molte ricadute pratiche, materiali (fotocamera, luci, pannelli, ombrelli, pellicola, obiettivi, filtri, falegnameria, bric-à-brac, ecc). Per questo noi art director ci confrontavamo in maniera serrata con i fotografi, prima durante e dopo (ogni servizio veniva attentamente analizzato a freddo, prima di essere archiviato, per valutarne la bontà delle scelte e le criticità, perché servisse da lezione). Era quindi un vero lavoro di ricerca, svolto di nuovo ogni volta. Nelle fasi preliminari ci scappava quasi sempre una cena, tra art director e fotografo. Usavo la strategia del convivio per far digerire condizioni di lavoro difficoltose oppure quando per conseguire l’esito sperato mi pareva d’aver bisogno di un particolare virtuosismo, di una particolare attenzione e presa di coscienza.
Se si trattava del cosiddetto piccolo formato, ossia del 24 × 36 mm, si poteva andare più spediti, sia nella preparazione che nello svolgimento del servizio. Ma se si passava al medio formato (6x6 e limitrofi) la cosa si faceva più seria, con conseguente innalzamento dell’asticella, e della pressione. Il margine d’errore si faceva risicato, non c’era possibilità di spreco. E poi c’era lui, il totem, il Banco ottico. Avrei lavorato solo con Banco ottico con lastra 20x25 - un’enormità, una risoluzione inimmaginabile - non solo per gli still life, ma anche per i servizi di moda, per i servizi di sport, nonostante le ingestibili variabili della postura umana. Mi sembrava si avvicinasse all’idea platonica della realtà, il fatto che la stessa si potesse riprodurre con un originale di ben 20 centimetri per 25. Una riproduzione più vera del vero. Ogni scatto con il Banco ottico era ammantato di sacralità, e costava un botto. Andava controllato ogni dettaglio preventivamente, perciò passavo sotto al panno nero buona parte della giornata. Si chiamava “assistenza fotografica” e lo era davvero. Il mio ruolo diventava determinante proprio per l’impossibilità d’errore a cui eravamo costretti. Al suono del dispositivo di scatto a soffietto trattenevo sempre il fiato, quasi come una scaramanzia. Prima e dopo un grande servizio mi è capitato più volte di passare la notte in bianco, esasperato da un misto di esaltazione e di terrore, l’esaltazione in attesa di quello che avrebbe dovuto essere un capolavoro, e il terrore nel dubbio che non lo fosse. Infine si andava in via Zambon de’ Dauli a ritirare la creatura, col fiato sospeso.
La fotografia - e qui parlo della fotografia pubblicitaria - era sempre stata, ed era ancora, una faccenda fatta di coscienza, conoscenza, scelta, organizzazione, pazienza, rischio, passione. Ora non più. Oggi la fotografia - e qui invece parlo in generale - è stata ridotta a un mostruoso e universale specchio del narcisismo di massa. E, anche se può apparire esagerato, questo sguardo narcisistico planetario condiziona anche il nostro lavoro, condiziona tutto e tutti, quindi anche i fotografi professionisti. La facilità tecnica ha fatto terra bruciata generando una nuova piacevolezza photoshoppata senz’anima che intravedo anche nei migliori. Tra art director e fotografo i servizi si discutono brevemente al telefono, per sommi capi, tanto poi tra milioni di scatti uno buono lo si trova sempre, lo dicono le statistiche. Nulla più viene veramente curato, tanto dopo, a computer, si può cambiare, aggiungere e togliere a piacimento. Lo scatto spesso è solo una base sporca, un abbozzo, uno sgorbio.
Ci è stato tolto il tempo per imbastire una vera collaborazione con il fotografo, ora trasmettiamo dati. E se manca il tempo è perché manca il denaro: oggi la fotografia vale pochissimo. Buona parte dei servizi sono stati sostituiti dalle banche d’immagine, un po’ come sostituire il pranzo della domenica col cibo in pillole, predigerito. Insomma, ci hanno fornito di macchine sempre più potenti, più economiche e veloci per, infine, ridurci alla fame, nella frenesia di raccattare il necessario alla sopravvivenza. Una contraddizione del cosiddetto “progresso tecnologico” che dovrebbe farci riflettere e che tocca anche ambiti ben più inquietanti di questo.
Oggi compiango gli amici fotografi che hanno l’età per dire “io c’ero”, spesso artisti a tutto tondo, che hanno dovuto assistere, inermi, alla triste e rovinosa china del loro mestiere. La macchina digitale ha spazzato via quasi tutto, di certo ha mortificato una professione. Se qualcuno resiste a “fare il fotografo” (per come lo intendo io) è solo perché si porta in dote un gran nome, oppure perché è ricco di famiglia e può permettersi un hobby dispendioso. Oppure perché è un fottuto e adorabile e testardo bohémien. Tutti gli altri sono dovuti passare direttamente dall’arte alla catena di montaggio, senza passaggi intermedi, senza nemmeno passare dal via.
Ma il problema è sempre di chi guarda. E chi guarda siamo noi, siamo tutti. Credo che molta parte della svalutazione dell’arte fotografica sia dovuta proprio alla deriva narcisistica, cui prima accennavo, che porterà in breve ogni uomo e donna a nutrire un solo interesse: guardare sé stesso. Ognuno attore e regista del proprio filmino autocelebrativo composto di innumerevoli e ripetitivi autoscatti. “Nessuno più ritrae ciò che vede, mostra solo sé stesso, lo schermo del proprio cellulare si fa specchio e non finestra sul mondo”. È Roberto Cotroneo, nel suo ultimo libro “Lo sguardo rovesciato”, in cui aggiunge, con acume impeccabile: “Non sapere aumenta in modo vertiginoso l’illusione di essere creativi. Ma genera un’idea di sé stessi che è assai più alta di quanto sia veramente concesso alla realtà delle cose”.
24/11/2015 Filippo Maglione