“Quando spiego a scuola i poeti maledetti, mi viene una leggera tristezza. Noi ci abbiamo creduto a quell’idea, alla possibilità di una vita antiborghese che si fondi sull’arte, che sfidi il grigiume dei luoghi comuni. Ma oggi?”
È Paola Mastrocola, scrittrice e insegnante, a margine di un articolo apparso recentemente sulla Domenica del Sole in cui, prendendosi gioco di un paio di miti moderni - la brevità e la semplificazione (più si è brevi più si è bravi!) - celebra la perifrasi, ovvero l’uso di molte parole in luogo di una sola. La vasta, lenta, placida, profonda perifrasi, acerrima nemica dei nostri tempi fatti di concisi, cacofonici, spenti, reiterati cinguettii. Nell’articolo vengono citati, tra gli altri, questi immortali versi, nient’altro che una immensa perifrasi per dire “quand’eri giovane”:
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
La poesia si nutre di perifrasi. La poesia, dal greco ‘poiesis’ che, contrariamente a ciò che si pensa, significa ‘fare, produrre’, per millenni ha rappresentato una prestigiosa e privilegiata modalità d’espressione, a tratti sacrale, caratterizzata dalla particolarità, sottile e decisiva, che il significato, ciò che si vuol dire o comunicare, si lega a un suono musicale. “La poesia ha quindi in sé alcune qualità della musica e riesce a trasmettere concetti e stati d’animo in maniera più evocativa e potente di quanto faccia la prosa”. Questo non lo dico io o Paola o qualche altro bizzarro e anacronistico lettore di versi, ma un altro dei miti moderni: wikipedia. Ma se wikipedia dice il vero (e come non potrebbe!) perché oggi si fa di tutto per non essere evocativi e potenti?
“Perché viviamo nel tempo della comunicazione - è sempre Mastrocola che ci illumina - non certo della poesia. Se diciamo “Silvia, ti ricordi quand’eri giovane?” abbiamo detto la stessa cosa molto più in breve. Abbiamo comunicato, abbiamo rivolto a qualcuno una ben definita domanda che aspetta una altrettanto ben definita risposta: Sì, mi ricordo; no, non mi ricordo. Breve, conciso, efficace, economico. E così ci siamo persi gli occhi ridenti e fuggitivi, il limitare di gioventù, il monito che la vita è mortale... Oggi ci piace così. Oggi mandiamo sms.”
Siamo esclusivamente economici perciò brevi e semplificati (o viceversa) e in questo senso wikipedia prende una topica micidiale quando lega ‘evocazione e potenza’ ai versi, intendendoli quali attributi ancora vigenti del dire poetico. Quello della semplificazione esasperata, alla soglia della reticenza analfabeta, è un problema aperto anche a livello professionale. Oramai i testi estesi, le body copy, sono molto mal tollerati. Si vive solo di slogan, headline, da per tutto. I testi perciò sono sempre più risicati, e questo in generale è un bene, dato che il linguaggio pubblicitario molto spesso è un’infame infilata di panzane e luoghi comuni, infarcito di errori grossolani e di refusi.
Oggi tutto deve essere semplificato (attenzione: non semplice, proprio ‘semplificato’) e apertamente direzionato verso il guadagno, senza perdite di tempo; senza fare poesia, appunto. Se non è semplificato non è utile, perché è uno spreco (di cosa? di tempo, attenzione, intelligenza?). Il messaggio verbale, anzitutto, ha da essere diretto, rabberciato e, va da sé, banale (perciò potenzialmente popolare, compreso da tutti). E questo diventa un dramma, se dal campo pubblicitario si estende alla totalità delle comunicazioni tra esseri umani, capaci di interagire solo a forza di slogan. Diventa un serio problema culturale, anzi: di civiltà. Temo che perdendo l’abitudine alla lettura meditata, all’analisi dei testi, alla scrittura accurata... si stiano perdendo gli strumenti per affrontare la complessità. Sembra una banalità ma non lo è: i pensieri, le comunicazioni, le ricreazioni ma anche le azioni stesse, tutte, economiche e no, si basano sul linguaggio. E un linguaggio banale non può che generare pensieri, comunicazioni, ricreazioni, azioni... banali - con l’unica pregiudiziale del guadagno che affranca la banalità e la rende santa. E il resto? Tappezzeria per perdigiorno, evidentemente.
È anche, forse soprattutto, un problema di educazione, e qui si dovrebbe lavorare. Se il nemico della crescita culturale è la semplificazione, e questo è indubitabile, l’istruzione dovrebbe assumersi il compito di fornire gli strumenti per affrontare la complessità - e per ‘leggerci dentro’ alla complessità, non semplicemente per ‘enumerarla’. Mi chiedo: è questa la direzione intrapresa?
Tratto ora brevemente un curioso caso personale.
Il mio mestiere si basa per buona parte sull’argomentazione, complessa perché tocca ambiti svariatissimi, delicati e spesso contraddittorii come il gusto personale, l’armonia delle forme, la percezione visiva, la memoria collettiva, le logiche di mercato, le attitudini dei target, ecc. Per giustificare alcune mie scelte, e soprattutto per rapportarle alle sollecitazioni che mi provengono dai clienti e dal mercato, sono costretto ad argomentare passo passo le mie risoluzioni. Sono sempre scritte, per essere chiare e per diventare memoria condivisa e attingibile da chiunque faccia parte del tavolo di lavoro, che spesso è allargato.
Recentemente un cliente con cui a intermittenza ho gravi problemi di comprensione (reciproca) mi ha confidato, quasi sbadatamente, che evita da tempo di leggere qualsiasi messaggio che superi le cinque righe, perché, così lui, in cinque righe si riesce a dire tutto di qualsiasi cosa su qualsiasi argomento (e d’altronde chi si esprime in più di cinque righe non merita attenzione perché significa che non sa stare al mondo, a questo mondo!). Non mi meraviglia affatto che non riesca a riconoscere questa sua efferata abitudine come la ‘causa’ del nostro difetto di comprensione (difetto che è l’effetto della causa), proprio perché da tempo, abituato a impartire ordini o a doverli rispettare per mero utilitarismo, si è assuefatto a un linguaggio protocollare e antidialettico, impossibilitato perciò al confronto e alla messa in questione dei nessi causali. Che poi tali lacune non impediscano la riuscita negli affari, dimostra una volta di più quanto il successo economico non riesca a qualificare un essere umano più o meno riuscito, quanto meno a livello intellettuale - ma a chi interessa più l’intelletto? (dal latino intellectus, derivato dal participio passato del verbo intellìgere = intellègere, composto da intus e lègere che significa «leggere dentro»)
Infine quel che veramente penso.
Non c’è nulla di più inattuale, rivoluzionario e contrastante con i valori oggi dominanti – o l’assenza di valori – che leggere poesie, magari quelle che già amiamo, per trarvi conforto, piacere e oblio, riscoprendovi intatta la potenza dirompente e la forza evocatrice, insieme alla possibilità di immaginare, anche solo immaginare, una vita antiborghese che sappia fondarsi sull’arte, che sappia sfidare il grigiume dei luoghi comuni. Con la lama acuminata, terribile, luminosa e tersa del dire poetico.
E ho detto tutto, in poco più di cinque righe.
10/07/2014 Filippo Maglione