L’estate appena trascorsa si è rivelata, secondo tradizione, il periodo più intenso dell’anno. Abbiamo sviluppato una gran mole di lavoro, incassando anche parecchi elogi, forse fin troppi (se esistesse un tasso di cambio ragionevole euro-encomio potremmo vivere di rendita da un pezzo). Tra gli ultimi lavori mi piace segnalare quelli svolti per Cipollini e DMT (entrambi per le collezioni 2015). Quindi l’immagine coordinata di Stern, il nuovo affascinante locale parigino degli Alajmo. E poi il brand di bici da competizione, Divo, di cui abbiamo curato la gestazione e il lancio mondiale. Ma non meno gratificanti si sono rivelati due piccoli lavori no-profit svolti per associazioni a noi care, “Il Gusto per la Ricerca” e “Gioia Multipla”, rispettivamente animate da Stefano Bellon e Mauro Defendente Febbrari, due diversi e originali uomini d’eccezione.
Ma non ostante la gran mole di prodotti sfornati, in questi giorni resta il rammarico per un paio di lavori che sarebbe stato bello svolgere per puro piacere personale, per soddisfare non tanto un bisogno professionale, un desiderio d’ulteriori onorari, quanto per una sorta di sterile egoismo estetico.
Mi aggiravo negli ormai familiari spazi di Palazzo Zabarella a Padova, ammirato di fronte alla maestria di Vittorio Matteo Corcos, pittore vacuo, lezioso, impalpabile quant’altri mai, ma per certi versi irresistibile, forse anche per questa sua molle e sublime impalpabilità - a fronte però di una tecnica di prim’ordine. Mi aggiravo rapito nelle sale semideserte... immaginando di godermi poi, a casa, con tutta calma, le note degli esperti e le fedeli riproduzioni dei quadri esposti. Anzi, da un certo punto in avanti sono partito a costruire mentalmente un mio personale e virtuale catalogo della mostra. Quali quadri enfatizzare, quali dettagli marcare con le macro. Quali i font, le spaziature, quale la copertina, la carta, il dorso, il colore dominante. Nella fantasia avevo già impostato le prime trenta pagine: una successione di soli occhi delle sue fanciulle, una sequela di quindici doppie pagine di occhi, solo occhi, spettacolari occhi femminili, tristi, sereni, enigmatici, solari, ombrosi, magnetici, rasserenanti... Prima del frontespizio, prima di iniziare il libro vero e proprio, in trenta pagine, tramite un leggero effetto ipnotico, riuscire a penetrare l’unico struggente mistero di un pittore altrimenti banale, al limite del decorativo. Tutto questo l’ho immaginato possibile anche perché questa mostra si propone di riscoprire un pittore finito ai margini da tempo, una mostra, quindi, potenzialmente capace di segnare un punto di svolta nella reputazione e nella valutazione delle opere dell’artista, e che inoltre propone, con motivato orgoglio, molti inediti (per cui, giocoforza, da fotografare ex novo).
E una volta al bookshop cosa ti trovo? Un catalogo svogliato, trascurato. Una impostazione grafica svogliata, trascurata. Foto svogliate, trascurate. Sforzo di interpretare l’artista, di sentirlo, di amarlo, di comunicarlo? Niente, solo routine. Mi chiedo: perché? Visto che poi quel che resta come memoria storica dell’evento è proprio, ed è solo, questo?
Qualche giorno dopo mi aggiravo nelle altrettanto familiari sale del Chiostro del Bramante a Roma, ammirato di fronte alla originale ed eccentrica maestria di Maurits Cornelis Escher. Si fatica a uscirne indenni, una volta introdotti nel suo mondo visionario in cui natura, matematica, magia, rigore, gioco e finanche sberleffo si fondono in un magma contraddittorio, a tratti perturbante. Anche qui, da un certo punto in avanti, l’occhio del grafico ha preso il sopravvento sullo spettatore inerme, immaginando un catalogo degno di un tale artista. Mi sono fatto piccolo al suo cospetto, e l’ho immaginato minimale e rigorosissimo. Ho prefigurato riproduzioni nette e sature (sfruttando un biancoenero stampato in bicromia, col rinforzo di un grigio pantone), ho immaginato una carta a mano del tutto simile a quella delle sue litografie (Fedrigoni ne ha prodotta di recente una adeguata, per altro a buon mercato). Sentivo il bisogno di un dorso particolare, denudato. A un certo punto sono andato a ritroso, per isolare le opere da mettere in luce nel capitolo introduttivo (sì, mi piace l’idea di introdurre il lettore con una carrellata di opere di benvenuto, quasi a omaggiare l’ospite con quel che una volta veniva detto “il fiore” dell’opera). Anche stavolta ho ricostruito mentalmente il catalogo ma, memore dell’esperienza padovana, senza nutrire alcuna attesa particolare per quel che mi sarei trovato dinanzi più tardi.
E infatti una volta al bookshop cosa ti trovo? Un catalogo svogliato, trascurato. Una impostazione grafica svogliata, trascurata. Foto svogliate, trascurate. Sforzo di interpretare l’artista, di sentirlo, di amarlo, di comunicarlo? Zero. Solo routine. Per cui stavolta, per non subire ancora l’insulto dell’inadeguatezza della mediocrità, ho rinunciato a malincuore al catalogo, al piacere futuro di riattivare e ravvivare il ricordo di una mostra che mi è piaciuta.
Due artisti affatto diversi. Due istituzioni diverse, due città, due mondi diversi. Ma ugual modo di (mal)trattare ciò che resterà per sempre come memoria storica. Sarà un caso, in questo mondo traboccante effimero?
Mi resta il rimpianto di non averli realizzati, mi resta il rimpianto di non poterli sfogliare, di non poterne godere, dei due cataloghi (i due libri) che ho elaborato mentalmente nei lenti tragitti a Palazzo Zabarella e nel Chiostro di Bramante. E così ho chiuso un’estate piena di lavoro (di rose) sentendo risuonare beffardi i versi di Gozzano, riprodotti, non a caso, in una parete della mostra di Corcos: “Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state...”
14/10/2014 Filippo Maglione