“Un libro lo vivo come un ‘punto fermo’, nella piena accezione del termine. In un’epoca colma di immagini in continuo movimento, sono rapito dalla poetica staticità della carta stampata, che ha però il potere di far viaggiare veloce il pensiero, l’immaginazione. Preparare un libro, scrivere un testo, meditarlo, radunare ricette, interpretare visivamente e simbolicamente i piatti… significa anzitutto fare chiarezza a noi stessi, intimamente, fin quasi a risultare nudi di fronte a tutti”.
Sono parole di Massimiliano Alajmo, registrate durante la serie di incontri svolti assieme al fratello, Raffaele, in preparazione del libro Fluidità, presentato il 21 novembre scorso alla Biblioteca della Biennale di Venezia. Da queste registrazioni è stato ricavato il testo che apre il libro, il cosiddetto “dialogo”, in cui viene tracciato in sintesi il percorso svolto dagli Alajmo negli ultimi sette anni, tra l’edizione del primo libro, In.gredienti, e quest’ultimo. Il “culto della poetica della carta stampata” è una fra le tante forze materiali e immateriali che mi legano a Massimiliano. Designa di fatto una predilezione esistenziale fortemente simbolica, fuori dal tempo perché, come afferma George Steiner, “in ogni libro vi è una scommessa contro l’oblio”. Editare un libro, dati questi presupposti, non è un gioco da ragazzi. In gente come noi, di fronte a un’opera come questa, si accumula un tal peso di responsabilità che a volte finisce per limitarne il godimento puro, cioè quello di svolgere l’occupazione preferita fra tutte. La parte più stimolante è sempre quella iniziale, relativa alla creatività e allo sviluppo del progetto: come realizzare le foto, come indirizzare lo stile, cosa scrivere, come scrivere... Questa è la porzione bella, decontratta, fertile, suadente, direi anche facile, specie se si svolge assieme a gente talentuosa o geniale (e questo è stato giusto il caso). La parte difficile, spossante e carica di responsabilità meccaniche non compensate da nulla di liberatorio e creativo, è quella che segue e che concerne l’editing, nell’accezione più estesa del termine: le continue verifiche, le piccole modifiche, i minimali ripensamenti, la spasmodica caccia al refuso, bestia malefica sempre in agguato e mai sgominata del tutto (“colui che lascia passare i refusi senza correggerli non è soltanto un ignorante: bestemmia contro lo spirito e contro il senso” - ancora Steiner). Poi la correzione delle prove di stampa, l’eterna insoddisfazione che porta a valutare l’ultimo dettaglio infinitesimale più e più volte, con grave scorno di fotolitisti e prestampatori. E infine il controllo delle cianografiche, ultimo passo prima del baratro delle (quasi) irreversibili “lastre di stampa”. Fase di verifica delle cianografiche che per un libro di quasi 600 pagine in 3 edizioni in lingua diversa (con gabbie mobili) porta a controllare, verificare, verificare e verificare ancora la bellezza di quasi 1.800 pagine complessive. Tutto questo sforzo va ben oltre le normali mansioni professionali, finisce per sfiorare l’ossessione. Ossessione che oltretutto non permette di godere a pieno del prodotto finito, visto che l’attenzione non sarà mai concentrata sulle soluzioni idonee, ottimali o addirittura eccellenti, quanto su tutto ciò che avrebbe potuto esser fatto un po’ meglio.
Torno al culto per la carta stampata, riallacciandomi stavolta a quel che afferma il giornalista scientifico newyorkese Ferris Jabr, nell’articolo “Perché il cervello preferisce la carta” (recentemente riportato nei suoi punti salienti da Irene Enriques sul domenicale del Sole): più di 100 ricerche svolte negli ultimi vent’anni indicano che capiamo e ricordiamo il testo su carta meglio che su schermo. Anche i nativi digitali. Le spiegazioni che offre sembrano cogenti: la fisicità rende più facile la navigazione e la relativa ricezione. Sulla pagina del libro abbiamo più angoli in cui orientarci (quando ricordiamo una frase quasi sempre sappiamo dov’era posizionata in pagina, per esempio nell’angolo superiore della pagina destra...); lo spessore del libro dà la percezione immediata del punto del percorso in cui ci si trova; girare le pagine è come “lasciare l’impronta dei passi in un sentiero”. Il rapporto fisico sancisce una sorta di unione calorosa tra il nostro corpo e l’oggetto, che diventa quasi animato, un compagno di viaggio, appunto. Questo facilita il ricordo. Negli e-book la sensazione del cammino, della vicinanza, del percorso da compiere insieme e dei punti di ancoraggio visuale vengono meno. Le pagine una volta lette scompaiono, il verso è uno e continuativo, l’uso dello scroll implica una distrazione che pare di poco conto e che invece ruba risorse preziose alla comprensione del testo. Per non parlare dell’effetto dello schermo retroilluminato, tutt’altro che adeguato a una lettura meditata e continuativa. Attenzione: non sono così miope da negare i benefici della lettura al computer, a partire dalla possibile interattività istantanea, negata all’oggetto libro; e sono altresì convinto che a breve alcuni problemi non secondari quali l’azione dello scroll (peraltro limitato già nei tablet) e la retroilluminazione dei video saranno brillantemente risolti. Nonostante i benefici e gli imminenti miglioramenti del mezzo, la lettura a schermo favorirà sempre la distrazione, la divagazione, al contrario della carta che per sua natura favorisce e favorirà la concentrazione, per cui, va da sé, l’apprendimento. Quindi se si vogliono imparare molte cose superficialmente si può, anzi si deve, non far conto sul cartaceo e votarsi al computer. Se invece si cerca una conoscenza specifica, profonda e meditata, per cui anche feconda... si farà meglio a scegliere (ancora) la carta.
Infine due altre parole su Fluidità, l’opera che ha condizionato non poco gli ultimi mesi di vita. In questo libro ho cercato di assecondare il genio di due grandi professionisti, con rispetto. La difficoltà è sempre quella, da tredici anni a questa parte: riuscire a conciliare, all’interno di un processo creativo, due personalità e sensibilità assai diverse, a dare forma concreta e coerente a questa diversità. Pur essendo fratelli molto affezionati l’uno all’altro, e stimandosi reciprocamente, sono depositari di due visioni del mondo distinte, spesso opposte, e in perenne confronto. Mi trovo nel mezzo di questo esercizio senza pari, stimolante, esaltante, ma anche un tantino stordente. Nonostante tutto devo cercare una corrispondenza tra forma e contenuto, senza troppi esercizi di stile, divagazioni grafiche e concettuali sempre in agguato in casi come questi, essendo scorciatoie. Fluidità è infine un libro formalmente più libero, ondivago, esuberante, finanche incostante rispetto al precedente: anche in questo credo descriva la traiettoria compiuta dai fratelli Alajmo in questi ultimi sette anni. Sul libro non ho da aggiungere molto altro. Un buon libro non ha bisogno di tante presentazioni, si presenta da sé. E questo credo sia un buon libro. Per cui ho detto sin troppo.
03/12/2013 Filippo Maglione