Riprendiamo la consuetudine delle Istantanee, interrotta all’inizio del 2020 in coincidenza con la pubblicazione del libro omonimo (Istantanee, Helvetika edizioni, gennaio 2020). In questa ampia parentesi di tempo, oltre a restare sempre centrati sul nostro lavoro concretizzando molti progetti (ne presentiamo alcuni realizzati per Officina Botanica, Gaudes, Upstream, Brado, Degusto, 12 Apostoli, oltre al libro “Evoluzioni e variazioni del divino salmone”), siamo stati spettatori inermi di un vero e proprio cambio di paradigma planetario. Crediamo infatti che quello che stiamo vivendo non possa più dirsi un semplice stato di emergenza, o meglio di eccezione, quanto un nuovo periodo storico, una nuova epoca a cui qualcuno in futuro attribuirà un nome. Da pubblicitari, essendo la creazione di nuovi nomi (per aziende e prodotti) una delle attività più impegnative, ci divertiremmo non poco a congegnarne uno adeguato.
Nell’invenzione di un nome il primo passo da compiere è lo studio del contesto e delle antecedenze. Rimontando di un secolo, dopo la Grande Guerra abbiamo assistito - con lo scioglimento degli Imperi centrali - all’epoca degli Stati sovrani e delle dittature. Dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo partecipato all’epoca delle Democrazie parlamentari; quindi l’epoca della Guerra fredda, a dividere in due il pianeta. Dopo il crollo del regime sovietico, l’abbattimento degli steccati, abbiamo l’epoca del Trattato di Maastricht - rimanendo entro i confini continentali - e l’epoca del Mercato globale, ampliando il senso e l’orizzonte; epoca, quest’ultima, marcata da un liberismo finanziario speculativo tecnologico senza più regole e confini, geografici e temporali, con le parentesi di distrazione di massa dedicate alla lotta al terrorismo internazionale (la Guerra al terrore, 2001-2008), alla crisi finanziaria (la Grande recessione, 2008, e seguenti), alla sensibilizzazione ambientale (l’epoca dello Sviluppo sostenibile, specie dal 2018, con le performance di Greta a far da volano pubblicitario) e infine, di recente, al Revisionismo culturale (rileggere proditoriamente il nostro passato con le categorie del presente, arrivando a considerare gran parte dei giganti del canone occidentale - in letteratura, arte e musica - squallidi esempi del suprematismo bianco).
Se dovessimo attribuire un nome a questa nostra epoca ponendo, come sempre, a baricentro il potere da cui ne scaturisce la dinamica, potremmo quindi pensare, banalmente, a epoca del Regime sanitario, o del Regime terapeutico. Oppure, spostando l’asse dalla causa immediata (sanitaria) all’effetto a lungo termine, epoca del Controllo panottico. Ma - tra il serio e il faceto - riteniamo più giusto, per una volta, concentrarci sui dominati piuttosto che sui dominanti. La nostra epoca la merita tutta, una visione dal basso, perciò infine la chiameremmo epoca delle Pecore di Panurgo. Perché ciò che più sbalordisce di questo infinito stato di eccezione non è tanto il ruolo di coloro che dominano - oggi, con buona evidenza, i potentati bancari e speculativi senza frontiere e diretti affiliati multinazionali -, che da sempre agiscono, o brutalmente o con sovrana indifferenza, sulla pelle dei dominati; quanto proprio l’atteggiamento dei dominati stessi, dei sottoposti, che pare impossibile possano essere gli eredi di quelle masse scomposte, contraddittorie, esuberanti, variegate e prorompenti che dal periodo dei Lumi in avanti erano riuscite a guadagnarsi sempre più spazi di libertà, emancipazione e garanzie, sfociate infine, specie nel secondo dopoguerra, in vertiginose Carte Costituzionali atte proprio a riequilibrare il rapporto dominanti-dominati (e per un’esperienza psichedelica, nel senso dell’evasione dalla realtà, consigliamo di rileggere la nostra Costituzione, oggi, alla luce di tutto ciò che ci è precluso, dalla sovranità del popolo al diritto-dovere del lavoro e del voto, dalla libertà individuale ai rapporti sociali, per finire alla dinamica parlamentare e della giustizia, per tacere del resto).
Tornando alle Pecore di Panurgo e restando al nostro orticello. Non è necessario aver studiato storia o filosofia politica per porsi qualche domanda insidiosa di fronte a un sistema politico che per affrontare la più grave emergenza dal dopoguerra affida (ancora una volta) le proprie sorti alle mani di un banchiere, con plauso di tutti. Un plauso così esagerato, esibito ancor prima che questi avesse mosso un dito e proferito parola in Parlamento, farebbe pensare di trovarsi al cospetto d’un esperto e infallibile demiurgo della politica, oltre che a un santone guaritore. In forza di cosa, ci chiediamo, può maturare un atteggiamento tanto pecoresco? Si tratta di un banale pregiudizio modaiolo che sfocia in placido e rassicurante conformismo? O è conseguenza di un terrore che si vuole mitigare opponendo una figura messianica confezionata ad hoc? O forse perché è normale fidarsi di un tizio che ha firmato, una a una, le banconote che abbiamo maneggiato negli ultimi anni? O cos’altro? Perché di fatti concreti a supporto della sua tenuta politica quell’uomo illustre non ne poteva certo vantare, essendo il banchiere, che cura gli interessi della banca, giocoforza ben distante dal politico, che cura, o meglio, dovrebbe curare gli interessi del popolo, di tutto il popolo, e perciò legiferare per imporre limiti allo strapotere bancario e speculativo, per esempio). Magari si rivelerà il miglior Presidente del Consiglio dai tempi di De Gasperi e salverà un popolo dopo aver salvato una moneta. La speranza è esattamente questa. Eppure non ci sembrano domande peregrine, pur nella loro forma iperbolica, non foss’altro perché per diventare un buon Presidente del Consiglio dovrà comunque reinventarsi. A meno che governare un Paese, una banca, una televisione, un’aula di università o di tribunale, sia diventata la stessa cosa.
A tutt’oggi ci chiediamo perché il governo non si sforzi di fare il proprio dovere nel tentativo di equilibrare istanze diverse, spesso contrapposte, come, per esempio, le istanze dei virologi e quelle della gran massa dei lavoratori senza tutele (in democrazia simili contrapposizioni sono innumerevoli). Ci chiediamo perché finisca ancora per affidare il proprio operato esclusivamente nelle mani dei primi, espletato con le ridicole derive delle leggi marziali emesse in base a un incontrovertibile indice RT con le sue belle curve spiegate dal virologo stesso, sempre con toni spaventosi, apocalittici. Quando invece «non la paura bensì un giusto timore dovrebbe suggerire le opportune cautele senza cadere nel panico e senza perdere la testa».
Così, in questo triste tempo dominato dai numeri - di preferenza dei contagiati e dei morti -, per alimentare domande continuiamo a confrontarci con alcune voci fuori dal coro. Tra tutte spicca quella di Giorgio Agamben (sua la frase che chiude il precedente capoverso), il primo a cercare di “leggere dentro” questa crisi, tanto da proporre in rete, addirittura il 26 febbraio 2020, tre giorni dopo la definizione delle prime zone rosse a Codogno e Vo’ Euganeo, questo scandaloso testo:
«Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite. L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo».
Si tratta di una lettura con un presupposto a tutt’oggi non dimostrabile: la pandemia come invenzione e non accidente, calamità. Eppure non riteniamo dannoso, tutt’altro, l’emergere delle domande che tale lettura solleva. Perché è solo dalla dinamica dialettica di letture contrapposte che si può sperare di “ragionare insieme”, per uscire da questa triste deriva non disperdendo tutti i valori della nostra civiltà - il principale dei quali, la dialettica, principia esattamente col domandare.
Ciò che più lascia perplessi scorrendo il palinsesto del mainstream e osservando le persone mascherate per strada, da lontano, nel distanziamento sociale, è la remissività, il fatalismo, l’ebete condiscendenza. Avvicinandosi al mainstream e alle persone al punto da poterli ascoltare, spicca la totale assenza di domande scomode, nella convinzione che a questa condizione di palese minorità non possa esserci lettura alternativa. La salute si è sostituita alla salvezza, la vita biologica ha preso il posto della vita sociale e anche della vita eterna, tutto il resto non conta. Se si sollevano dubbi, se si pongono domande del genere di quelle che hanno portato Agamben ad argomentare contro il potere, si nota un fugace lampo di vita negli occhi di chi recepisce tali dubbi, tali domande, dopo tanto tempo perso a sonnecchiare tra social network e serie TV. Ma è un attimo, perché il lampo si spegne in una liquida parola: complottismo. Sì, nell’epoca delle Pecore di Panurgo il semplice sollevare domande vale la qualifica di complottista.
Inutile spiegare, con lo stesso Agamben, che, come sempre nella storia, anche oggi vi sono uomini e organizzazioni che perseguono i loro obiettivi leciti o illeciti cercando con ogni mezzo di realizzarli. Detto che i disastri (guerre, pandemie, carestie, crolli in borsa...) possono anche non essere invenzioni, comunque sempre vengono sfruttati da qualcuno che sovrasta altri. E più i numeri aumentano, più aumentano i guadagni, più aumenta la distanza tra dominante e dominato, più aumenta il cinismo. E chi vuole comprendere quello che accade ai piani alti, pur rimanendo in basso, dovrebbe, appunto, porsi domande attorno agli obiettivi e ai mezzi in mano ai potenti, in mano a chi sovrasta. Dovrebbe cercare di intenderli per lo meno nei sommi capi - presupposto indispensabile per opporsi quando necessario, nel tentativo di difendere qualche barlume della nostra civiltà, della nostra cultura. «Parlare di un complotto non aggiunge nulla alla realtà dei fatti - afferma Agamben - ma definire complottisti coloro che cercano di conoscere le vicende storiche per quello che sono, è semplicemente infame». Anche se probabilmente, il più delle volte e più banalmente, si tratta solo di un vago termine per sigillare la comoda e grigia uniformità gregaria, tra una navigata in rete e la nuova serie TV.
09/04/2021 Filippo Maglione