Questa istantanea è già stata pubblicata recentemente,
con lievi modifiche, sul Calandrangolo, il magazine del gruppo Alajmo.
Ogni volta che mi capita di riprendere in mano il catalogo dell’ultima Biennale di Venezia capisco quanto l’arte, soprattutto l’arte contemporanea, abbia la necessità d’essere fruita direttamente, dal vivo. Più che le foto e le descrizioni funzionano quindi i ricordi delle emozioni provate. Ma raramente, ahimè, i ricordi sono nitidi. Resta una sensazione, più o meno piacevole.
Nel 2011 è stata molto, molto piacevole. Anzitutto la prima visita ai Giardini: compiuta con gli amici del cuore, me lo ha proprio aperto, il cuore. Ci siamo abbandonati tra i sentieri come bambini al luna park. Momenti di struggente bellezza e pienezza. Sono poi tornato da solo per terminare la visita e soffermarmi su quelle che ho ritenuto le emergenze. Non vale la pena d’elencarle, mancherebbe lo spazio, fatto sta che l’impressione generale è stata molto forte e, credo, duratura. L’edizione poi è stata speciale a tutti gli effetti, avendo collaborato alla realizzazione dell’evento Lucefluida, legato alla Biennale, ideato da Massimiliano Alajmo e allestito sia al Ristorante Quadri di Venezia, sia al Ristorante Le Calandre di Padova, durante tutto il periodo, da luglio a novembre. Una performance gastronomica polisensoriale che ha avuto il potere di convincere chiunque vi abbia partecipato che le opere (e performance) di un grande chef sono perfettamente assimilabili alle opere (e performance) dei grandi artisti contemporanei. Con in più un risvolto clamoroso: con l’artista-chef il piacere (o il turbamento, lo stupore, ecc...) si dilata fino a comprendere tutti i sensi, quasi che l’opera d’arte ti penetrasse per intero.
Al di là di questa esaltante parentesi, la Biennale 2011, come detto, mi ha impressionato piacevolmente. Ho trasmesso questo piacere ad amici e familiari; gli atteggiamenti sono stati di due tipi, secondo tradizione. I pochissimi che si piccano d’essere competenti criticano il mio entusiasmo, definendo l’ultima Biennale immancabilmente deludente (vuota, oppure commerciale, oppure qualsiasi aggettivo che tenda a sminuirla). La maggioranza invece mi guarda di traverso dicendomi che l’arte contemporanea è troppo difficile, oppure incomprensibile, oppure disgustosa, e cambia discorso in un batter d’occhio col terrore che magari possa controbattere oppure cominciare ad elencarne più diffusamente i “pregi”. L’idea diffusa è che l’arte contemporanea coincida con la difficoltà, con l’incomprensibilità, se non addirittura con la ripulsa. Inutile nasconderlo. Chiunque non faccia parte del mondo dell’arte, in cuor suo è questo che pensa. E chi fa parte di quel mondo troppo spesso ama dimostrarsi “saputo” con lo strumento che più può metterlo in mostra, ovvero la stroncatura (che dimostra una superiore capacità di comprensione, ovviamente). Ma passo a chi mi interessa di più, a quelle persone che in buona fede rifuggono l’arte contemporanea perché difficile. È Iosif Brodskij che ci avverte (lui parlava della poesia, ma è un discorso che può benissimo estendersi all’arte tutta): “Se la vita moderna non è tanto facile, perché mai l’arte dovrebbe essere diversa?”. Ma si può obiettare (lo fa lo stesso Brodskij) che arte e vita sono cose diverse. Giusto: l’arte dovrebbe servire proprio a evadere dalla quotidianità, anzi a contraddirla... E allora, come la mettiamo con questa benedetta arte contemporanea? La detestiamo perché somiglia troppo alla vita, o troppo poco? Credo che le domande siano mal poste, e che i pregiudizi rendano impossibile porne di migliori. D’altronde non esistono risposte definitive, semplicemente perché la vera grande arte non pretende risposta. Una sola immagine mi viene in mente se cerco di raffigurarmi metaforicamente tutta l’arte contemporanea: un enorme, stimolantissimo, punto di domanda. Una domanda posta in tutti i possibili modi, e per di più una domanda che vuole restare inevasa, che non chiede risposta. E perché non pretende risposte? Forse perché si propone come tentativo estremo, a volte tragico, a volte ironico, di superamento del nichilismo? Quindi perché il nostro mondo non ha più contenuti che l’arte possa rappresentare, senza farsi strumento di una ideologia? Forse perché tende progressivamente ad allontanarsi dai canoni estetici consolidati, proprio perché non ci sono più certezze, di fede o quant’altro? Forse perché nell’arte come nella filosofia, e al contrario della scienza, non sono necessarie le certezze che corroborano le sistematizzazioni, le classificazioni, il progresso della tecnica e il conseguente futuro radioso? Forse perché ogni artista tenta semplicemente di mettere insieme molti e diversi concetti e cose, cercando di non ripetere pedissequamente chi l’ha preceduto, per non cadere nel baratro dei cliché? Perché magari gli basta - e comunque lo troverà grandioso - apportare un grano di turbamento, di sapienza o di felicità in più rispetto a prima? Ma forse, e probabilmente più per caso che per logica, non siamo arrivati al punto? L’arte non può servirci per donare un attimo prezioso di turbamento, di sapienza o di felicità, a seconda del tipo d’opera o di performance, un attimo di abbandono e follia che ci faccia intravedere cause prima d’allora insondate, utilissime a comprendere genuinamente, e con occhi nuovi, gli effetti che tutti i giorni irrorano la nostra precaria quotidianità?
15/05/2012 Filippo Maglione