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Grafica e comunicazione

Iconoclasmo

È nota l’avversione di J.D.Salinger per le immagini di copertina dei libri, considerate preconcetti arbitrari. Non ostante ciò la casa editrice Einaudi per le prime edizioni in lingua italiana del suo capolavoro, “Catcher in the Rye” (Il giovane Holden), osò decorare la copertina con una peraltro notevole illustrazione di Ben Shahn; successivamente, accogliendo il volere dell’autore, licenziò una copertina bianca con una cornice nera che racchiudeva altro bianco, quasi a indicare l’assenza di un’icona, sottolineando così una sorta di forzatura. Con gli anni il riquadro è scomparso; ora la copertina è completamente bianca, nel ferreo rispetto dei gusti dell’autore (fatte salve le sempre incombenti fascette pubblicitarie, che di certo non gradirebbe).

Aveva ragione da vendere, Salinger. Penso a quel suo magistrale libro che, pur non così vasto, mi pare imporre una ferrea impossibilità nel riuscire a isolare una immagine, una sola immagine rappresentativa del testo, di quella poetica, di quel personaggio.

Ho già trattato altrove il problema, ma mi accorgo che più vado avanti più mi sento di sostenere la posizione radicale di Salinger, non solo relativamente a quel suo libro ma più in generale nei confronti di tutti i libri che si propongano di comunicare una “poetica”. E con questo un po’ mi rincresce andar contro, per una volta e pur parzialmente, al grande Bruno Munari, quando afferma che “la copertina di un libro è un piccolo manifesto e ha lo scopo di comunicare all’osservatore che, in quel libro, c’è qualcosa di interessante per lui”.

Se tratto di un argomento preciso e circoscritto o di un fatto specifico o di un’epoca particolare posso senz’altro riuscire a isolare una icona rappresentativa e farne un “manifesto”. Per gli istant book, per i cataloghi, i manuali e certi saggi nessun problema: il grafico può sbizzarrirsi con le sue trovate. E sui brutti romanzi chiunque può far quel che vuole, non c’è problema.

Ma quando qualcuno con certe doti, un artista della parola, ricostruisce frammentariamente un’anima (questo ha fatto Salinger e questo grosso modo fanno i grandi novellieri: ricostruire a parole i percorsi dell’anima dei protagonisti) come faccio a rappresentarla, quell’anima, a racchiuderla in una immagine precisa, senza limitarla o tradirla? O anche solo disturbarla?

Faccio l’esempio di Delitto e castigo (e qui la vastità si spreca) da poco riletto nella nuova traduzione, non sempre convincente, di Emanuela Guercetti. In copertina mi hanno schiaffato il bell’autoritratto di Léon Bonnat, un faccione di giovane meditabondo e languido, nobile e austero. Quale il nesso con Raskolnikov? Bellezza e magrezza ci sono, certo. Gli occhi sembrano vagheggiare un incipiente disturbo psichico, volendo. Ma sento che quel volto impresso in copertina, che vedo ancor prima di affrontare il protagonista sulla pagina, mi toglie qualcosa di fondamentale: il piacere di ricostruire da me l’immagine di Raskolnikov interpretando le parole di Dostoevskij, seguendo il ritratto che ne traccia via via che il racconto si dipana. Un ritratto fisico e psichico, quindi spirituale, che sarà giocoforza condizionato da quella immagine scelta non da Dostoevskij, non da me, ma da una pur benemerita casa editrice sita in via Biancamano, Torino. Non esiste. È una piccola violenza, un sopruso che rifiuto. In questi casi mi risolvo a sfilare subito e a parcheggiare altrove la sovracoperta e a godere del libro denudato, nel suo caratteristico Imitlin azzurro-verdino, che oltretutto rende l’oggetto più maneggevole specie nelle sessioni di lettura notturne. È evidente che se invece del ritratto di uno pseudo Raskolnikov avessero scelto la riproduzione di un quadro raffigurante uno scorcio di San Pietroburgo a metà del diciannovesimo secolo il danno sarebbe stato minore. Ma anche in questo caso: perché condizionarmi la ricostruzione mentale dei luoghi descritti dal nostro? Quasi che le parole di un genio non bastassero, quasi che avessimo bisogno di un supporto per rinfocolare la nostra labile immaginazione visiva.

Per questo tipo di libri ritengo dannose pure le rappresentazioni simboliche, anche le migliori, che sembrano ingegnose e quasi sempre sono solo furbette, e infine trovo superflue le raffigurazioni astratte, i pattern, le decorazioni, i ghirigori. La copertina di un libro notevole deve richiamare il silenzio che pervade la sala un attimo prima dell’inizio del concerto. A questo silenzio di facciata poi, nel mio libro-ideale, può corrispondere il prière d’insérer, ovvero quel testo di presentazione che sarà ben celato in quarta, nel risguardo o nel risvolto di copertina, oppure all’interno, come foglietto volante, il cosiddetto “santino”, così fuori moda. Perché qualche informazione la devo pur dare al potenziale lettore/acquirente, ma a patto che non venga sbattuta in faccia volenti o nolenti: quel testo si deve cercare, leggere, decrittare; tutto questo fa parte di una scelta e non di una imposizione, qual è invece un quadro, pur bello, che campeggia in fronte.

Tornando a Salinger e al suo rintanarsi lontano dai riflettori, lontano da tutto, così in sintonia con le sue scelte grafico-editoriali, e all’amore che ho sempre nutrito per gli scrittori appartati, per gli irregolari, per gli irrequieti ma schivi, per i quasi vergognosi, per i disadattati. Da ragazzo li preferivo semplicemente per affinità di spirito, sentendomi anch’io, come molti adolescenti, sempre perfettamente fuori posto. Più avanti però ho capito che c’era dell’altro, di più puntuale e riferito alla stessa pratica dello scrivere. Qualcosa che la nostra Paola Mastrocola racconta così: “Lo scrittore scrive proprio per non mostrarsi. Ama rimanere nascosto e nell’ombra e quindi scrive. Se così non fosse, non scriverebbe: farebbe altro. Invece scrive per avere una tana riparata. Lì sta bene, lì, non visto, può esistere.”

29/10/2014 Filippo Maglione