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Grafica e comunicazione

La fluida realtà massimiliana

A chi mi chiede di parlare della cucina di Massimiliano Alajmo non so mai cosa dire di preciso, tante sono le possibili risposte, quasi tutte sovraeccitate, che mi affollano la mente. Ma un dettaglio emerge chiaro quando cerco di operare un giudizio equilibrato, perciò approfondito e non emozionale, sull’intera sua opera: ogni singolo piatto - e ne produce a ciclo continuo - è un anello di un’unica catena, un particolare, un segmento di una lunga storia che si dipana e cresce e matura assieme alla persona. Quel che colpisce frequentandolo con continuità è proprio la connessione, coerente eppur mai ripetitiva, che sussiste tra piatto e piatto, coinvolgendo così l’intero corpus dell’opera. 

Queste considerazioni sono sorte spontanee durante la lavorazione del secondo libro dei fratelli Alajmo, che vedrà la luce a novembre (in questi giorni abbiamo preparato un video di presentazione di questo nuovo libro, che propone un primo assaggio dei contenuti che proprio ora stiamo rifinendo). 

Riprendendo in mano il primo libro, In.gredienti, e selezionando le nuove foto dei piatti, realizzate assieme al grande fotografo brasiliano Sergio Coimbra, mi ha colpito constatare quanto i 68 prescelti (tra gli innumerevoli disponibili) si differenziassero stilisticamente rispetto ai 68 fotografati 7 anni prima. Ma come in fondo questa differenza facesse agio a un percorso comunque del tutto riconoscibile, coerente e fluido, che infine l’ha condotto sin qui, e che domani chissà dove lo porterà. E quel che lega il vecchio e il nuovo è proprio il “percorso”, che a me pare fatto molto più di conoscenza e fede, di gesti mentali quindi, piuttosto che ingredienti e tecnica. Piatti come esperimenti della conoscenza innervata di fede, e perciò di fiducia, senza però mediazioni astrusamente concettuali o forzosamente artistiche. Pietanze infine da sorbire in totale decontrazione, in una sorta di smemorato abbandono (abbandono di sé, anzitutto). Per inciso, quel tipo di conoscenza aperta, semplice e diretta ignorando la quale la mia vita sarebbe di certo più angusta. 

Nei suoi piatti, soprattutto in quelli che considero fondamentali, domina sempre una semplicità giocosa, si riconoscono tutti gli ingredienti d’acchito proprio perché percepiti come fossero puri, pur amplificati. Ma pare sempre ci sia anche qualcosa che tende a sfuggire alla comprensione, un dettaglio sfuggito anche al suo stesso controllo - non ho altri modi per definire il genio in arte, se non questo.

Il senso dei piatti di Alajmo come anelli di una stessa catena mi è sovvenuto leggendo Calasso, che illustra in questi termini il senso dei singoli libri da lui editati. Mi ha affascinato questo parallelo tra i libri e le pietanze, mezzi antichi di nutrimento vero. Sempre di Calasso conservo la descrizione dell’elemento religioso, che egli intende nell’accezione dei due termini indispensabili - conoscenza e fede, ovvero la sraddha dei veggenti vedici. “Elemento religioso che investe ogni angolo della nostra esperienza, poiché noi siamo in costante contatto con cose che sfuggono al controllo del nostro io - e proprio nell’ambito di ciò che è al di là del nostro controllo, si trova quel che per noi è più importante ed essenziale”. Frase che ho ricopiato pari pari perché riassume a perfezione ciò che da anni provo alle prese con le opere di Alajmo, frutto di una mente assetata di conoscenza e fede, forte di tecnica e improvvisazione, memoria e invenzione, e desiderosa di... abbandono (“fluire è arrendersi alla vera bellezza”).

Ora, più di qualcuno potrebbe pensare a questa come l’affabulazione di un pazzo. Investire di tali concetti tale materia, facendo rientrare non solo arte e genio, ma addirittura conoscenza e fede, può sembrare a tutta prima esagerato. Rispetto quest’opinione, ma mi tengo la mia: l’arte del cibo, ai livelli predetti è vera, grande arte. E per ciò stessa del tutto a suo agio in mezzo ai cosiddetti ‘concetti elevati’. Del resto non esistono concetti elevati. Esistono concetti, e già il solo partorirne di vaghi, oggi, in mezzo a questo popoloso deserto che appello “globalizzazione spettacolare”, è di per sé opera meritoria (una societá minata da egomania debordante e non più caratterizzata dal semplice ‘debordiano’ spettacolo, ma martoriata dal morbo della connessione spettacolare, insinuato non più nelle nostre case tramite un mezzo tutto sommato ancora separato dall’uomo quale la TV, ma sparato direttamente nelle nostre menti tramite il web - che a me sempre più pare il prefisso di ogni patologia-da-appiattimento-mentale).

 

La vischiosa irrealtà mediatica

Nello stesso periodo mi sono trovato ad argomentare, e polemizzare, in merito al recente scatto di popolarità compiuto dalla categoria degli chef-star. Negli ultimi tempi lo stesso Alajmo è stato a più riprese contattato da reti televisive di vario genere per presenziare a vario titolo a trasmissioni più o meno spettacolari legate al cibo, sul genere di MasterChef e Cucine da incubo, per intendersi. Di fronte al suo rifiuto reiterato nei confronti di queste iniziative, una parte dei cuochi a lui vicino ne ha perorato invece l’intervento, con argomenti tutt’altro che peregrini: portiamo al proscenio una voce seria e incorrotta quale quella di Massimiliano - dicono - per contrapporre a quel che ora passa il convento mediatico qualcosa che abbia veramente senso e dignità; e così accumulare popolarità e insieme autorevolezza a beneficio dell’intera categoria.

A questa visione ho però opposto una serie di argomentazioni in forma di domanda, che qui riporto di sana pianta, numerate. 

1) È davvero possibile portare in primo piano una voce seria, profonda e incorrotta, per contrapporla a quel che ora domina incontrastato? Per comparire in serie televisive popolari non si deve sempre aderire a un canovaccio predisposto da esperti che lo pesano in ordine a una “fruibilità” a cui non si può sfuggire? (canovaccio dettato da regole di marketing televisivo sempre piuttosto restrittive e refrattarie la serietà e profondità che, va da sé, non risultano per niente pop).

2) Partecipare al gioco mediatico non è già forse avallare tutto ciò che oggi lo compone? Quella di Massimiliano non sarebbe solo una voce che pare solo superficialmente smentire alcuni presupposti senza smentirne l’essenza? Perché esserci è già un avallare il medium, il mezzo. E per principio accettare il medium significa accettarne il gioco, ovvero le regole. Non è che Massimiliano non voglia partecipare al gioco anche perché conscio di questa sottile, ma decisiva, distinzione?

3) Quando questa ondata di chef mediatici andrà un po’ fuori moda... gli stessi non saranno visti con una punta di fastidio, dovuta proprio al successo goduto sin lì? Perché in Italia così funziona, molto meglio e puntualmente che in altri luoghi: il successo lo si fa pagare, prima o poi. Specie il successo ritenuto facile, e quello degli chef-star sembra facilissimo, a maggior ragione in tempo di crisi.

4) Ricordiamo la platea: l’Italia. Ora che il brand Alajmo è rivolto più al mondo che a un’Italia in crisi nerissima, siamo proprio sicuri che sia così rilevante una popolarità mediatica interna per acquisire autorevolezza e credibilità all’estero?

5) A proposito di autorevolezza e credibilità, stavolta interna e non più rivolta al pubblico indistinto ma a quello che forma lo zoccolo duro, ovvero gli opinion leader, i giornalisti e i gourmet: siamo sicuri che per questi l’apparire nei programmi televisivi sia un plus? Non è magari che proprio i defilati saranno quelli ritenuti più degni di rappresentare seriamente la categoria verso l’alto, passata la buriana di questa assurda sbornia mediatica rivolta verso il basso? Parlo appunto dei defilati come Massimiliano, coloro che continuano a sperimentare nuove idee di cucina e a crescere a livello professionale (per esempio con nuove aperture all’estero con l’intento di innalzare la percezione del Made in Italy di qualità) invece di operare al di fuori del loro habitat, ovvero negli studi televisivi. Dirò di più, a tutt’oggi chi tra gli chef di peso risponde a questo ritratto:
-defilato rispetto al barnum mediatico;
-sperimentatore incessante di nuove idee di cucina;
-artefice di nuove aperture di locali (una, imminente, anche piuttosto clamorosa perché in casa dei maestri transalpini).
Ebbene, chi risponde in pieno a questo ritratto fatto di serietà e concretezza? Uno solo. Perché allora non far pesare questa sua indiscutibile unicità, invece di renderlo uno dei tanti che affollano un circo che tra poco, ne sono sicuro, risulterà indigesto a molti?

6) Piuttosto, per assurdo ed enfatizzando volutamente il contrasto, ben conscio delle difficoltá intrinseche ed estrinseche: perché non impegnarsi per farlo comparire in TV... ma in trasmissioni serie, magari anche defilate, proprio per confutare quel circo? Ma non parlando “contro” quel circo. Mostrando solo che c’è un modo diverso di stare al mondo pur essendo uno chef pluristellato (con più stelle di tutti tra l’altro), parlando del senso della materia e degli ingredienti, della salubritá e dell’educazione alimentare, della potenza del gusto, dell’olfatto e del ricordo e del vero senso della fluidità in cucina e non solo... L’opposto quindi di un reality (il peggio del peggio, ipocrisia allo stato puro, richiamando nell’appellazione ciò che smentisce accuratamente, ovvero la stessa realtà, umanamente intesa).

7) All’interno di quel circo oltretutto Massimiliano non farebbe la figura del guastafeste, che in un circo è la peggiore? E, come detto più sopra, non dimentichiamo mai che al circo non si recita a soggetto. C’è un copione, una scaletta con ferree disposizioni. E Massimiliano non è né un circense né un attore. Pur essendo bellissimo.

11/06/2013 Filippo Maglione