Approssimandosi il cuore del periodo che per convenzione corrisponde alla nascita di Gesù, mi ha incuriosito il ricordo di un passo da "Nessuna passione spenta", raccolta di saggi di George Steiner, in cui si tratta in maniera inconsueta di morti e di nascite sacre. In breve l'ho rintracciato: ricordavo perfettamente in quale posizione della pagina iniziava quel capoverso. Steiner non è il primo ad affermare che due morti segnano l'intera storia intellettuale dell'Occidente, quella di Socrate (399 a.C) e quella di Gesù di Nazareth (33 d.C). Egli però si chiede se sarebbe stata diversa questa storia (rischiarata da una luce più stabile), se gli avvenimenti decisivi fossero state due nascite invece che due morti. Morti, seguite a due processi e a due condanne, che determinano il nostro retaggio, volenti o nolenti. Mi chiedo infatti, dubitoso, se le morti di Socrate e di Gesù continuino a essere pietre di paragone, lascito e monito; ma non ho molti dubbi nell'affermare che queste due stesse morti hanno segnato indelebilmente il tragitto culturale da cui noi siamo scaturiti, a prescindere dal riferimento laico o religioso che fa da sfondo ai diversi percorsi di crescita. E il tragitto culturale parla dell'impossibilità a sfuggire pienamente alle domande inquietanti che questa doppia violenza fa emergere, violenza che si esprime a fronte di due messaggi talmente ragionevoli da apparire "folli", vere e proprie provocazioni nei confronti del comune sentire, e del luogo comune. Socrate vorrebbe che fossimo virtuosi, veritieri, sobri, imperturbabili di fronte all'infermità e alla morte; Gesù va addirittura oltre: ispira l'altruismo totale, l'amore e la compassione universale, la disponibilità alla trascendenza. Qui Steiner sorprende affermando che il legame cruciale che esiste tra queste due "provocazioni" è che entrambe aprono la nostra banale umanità al "ricatto della perfezione", ci impongono brutalmente le richieste dell'ideale che riconosciamo chiaramente ma che siamo del tutto incapaci di adempiere. L'imitatio, insomma, si è rivelata troppo ardua, scatenando l'odio contro coloro che non siamo riusciti a emulare; di qui le due morti violente, e tutto quel che ne è scaturito: le letture di comodo, gli aggiustamenti, i travisamenti, fino ad arrivare al rifiuto acritico, molle e blando, fatto di indistinzione e relativismo, così tipici in periodi di crisi nichilista. Questo "ricatto della perfezione", una volta recepito nella sua drammaticità, apre sentieri diversi. Ma mi chiedo se ho mai inteso davvero la perfezione, ovvero se so di cosa sto parlando tirando in ballo questa parola riferita all'oggi, o semplicemente al mio limitatissimo vissuto. L’etimologia del termine riporta al latino perfectio, che deriva da perfectus, quindi da perficio — “finire”, “portare a termine”. “Perfezione”, quindi, significa letteralmente “compimento”. Ma noi mortali cosa davvero possiamo mai "compiere" di così perfetto? È semplice in fondo: dalla nostra indissolubile precarietà esistenziale deriva l'impossibilità della perfezione. Provo però a muovere un paio di passi in direzione della "impossibile" perfezione, magari per cercare di coglierla per opposizione, tramite l'arte, attraverso esperienze appena vissute.
La perfezione dell'incerto (come apertura)
A questo stesso ricatto della perfezione, e alla maniera artistica di opporsi a questo ricatto, ho ripensato nella grande sala delle Cariatidi al Palazzo Reale di Milano di fronte ai marmi non finiti, frammentari, incompiuti di Rodin. Tramite questi sono tornato ai sei prigionieri, o schiavi, scolpiti tra il 1513 e il 1530 da Michelangelo, a cui Rodin palesemente s'è ispirato più di tre secoli dopo; per la precisione allo "Schiavo che si ridesta" conservato a Firenze, in cui il corpo sembra aggrapparsi con tutte le forze al blocco di marmo grezzo, nell'espressione della ribellione fisica ma anche spirituale contro la resistenza che gli oppone la materia inerte, mentre lui tenta di accedere alla vita. Ho sempre pensato, ammirandolo, alla metafora della morte come rinascita, tentativo affannoso e cieco di liberazione. Quanto c'è di moderno in questo tardo Michelangelo senza tempo! Le nostre vite calate nella frammentarietà magmatica del contemporaneo paiono esse stesse voler sfuggire allo stato di abbozzo cui sono costrette, senza più fede, certezze, teleologia; paiono voler sfuggire a questa specie di prigione relativista. Il non finito, il frammentario, come simbolo stesso della dolorosa condizione umana, diviene per i moderni un principio creativo. Nel carattere transitorio del non finito si coglie l'espressione adeguata dello spirito del tempo della contemporaneità segnata dall'instabilità. In più la figura che emerge dal blocco grezzo pare anche cristallizzarsi vicina al suo punto d'origine, quasi sbocciasse dal suo nucleo esistenziale. Una sorta di sforzo concentrico, quindi, una fatica di Sisifo tra la vita e la morte.
L'ideale classico nel suo dettare le regole di (impossibile) perfezione insisteva sull'"essere" (finito, levigato, conclusivo) dettando una sua dittatura di canoni e norme. La modernità si muove invece sul terreno instabile del "divenire" (ciò che muta, che varia, ch'è mobile e potenziale) che però lascia liberi, verso l'incertezza, certo, ma anche verso l'apertura.
L'altra faccia dell'incerto, la deriva nichilista
C'è un'altra faccia della modernità in arte, molto meno profonda, drammatica e tormentata, con basi e riferimenti affatto diversi. Mi è capitato d'imbattermici lo stesso giorno nello stesso luogo, a pochi passi di distanza da Rodin, sempre a Palazzo Reale. Sconcerta pensare che il più grande artista del nostro tempo, il pilastro stesso dell'impalcatura su cui si basa quella che oggi definiamo arte contemporanea, abbia strutturato tutta la sua ricerca intellettuale partendo dal banale suggerimento di un'amica: "Dipingi la cosa che ti piace di più". Essendo appassionato di due sole cose, del denaro e delle zuppe in scatola, s'è messo a dipingere dollari e scatolame. Bonami lo definisce "il geniale candore di Warhol", e non mi permetto di discutere né il geniale, né il candore, del resto documentati entrambi da Warhol stesso nei diari, che sono la sconcertante confessione d'un uomo sommamente superficiale, talmente superficiale da soggiogare il nostro ego che si sente riconciliato (tramite la speranza che possa toccare anche a noi il bingo del successo planetario) o respinto (dall'invidia, dovuta al fatto che non sia uscito sulla nostra ruota, il successo planetario). E tra questa riconciliazione o repulsione che attua il nostro ego nei suoi confronti si gioca, io credo, l'impossibilità di esprimere un giudizio compiuto su Warhol. Perché ogni critica si rivolga a Warhol non può prescindere da una categoria che praticamente mai viene adottata per giudicare in toto altri artisti: la categoria del successo. Il successo con Warhol non è più una delle tante variabili nella valutazione del peso di un artista, diventa il vero discrimine, l'attributo fondante. Senza successo, diciamolo chiaramente, Warhol sarebbe uno sfigato fotocopiatore con uno spiccato senso dell'accostamento cromatico e della decorazione. Si arriva al paradosso che se non si apprezza l'arte di Warhol è perché o si è invidiosi del suo successo, o non si è capita la modernità, o si è snob velleitari. Lo afferma esplicitamente Bonami, con la sua solita bonomia tranciante: "Non bluffava quando insisteva nel dire che, per conoscerlo, bastava guardare la sua arte o semplicemente lui: tutto stava lì, sulla superficie, dietro: il nulla. Sostenere che, a causa di queste sue affermazioni, egli fosse un idiota sarebbe azzardato, dal momento che, onestamente, nessuno ha la prova che sotto la nostra superficie ci sia veramente qualcosa". Che è, onestamente, una dichiarazione imbarazzante, pur molto à la page nel suo relativismo autoironico da happy hour. In poche parole mi verrebbe da dire all'imprescindibile Bonami: parla per te.
La perfezione dell'intenzione (come rimedio)
Il 18 Novembre 1995 il violinista Itzhak Perlman si esibiva al Lincoln Center di New York City. Camminava con le stampelle a causa della poliomielite avuta da bambino. Il pubblico attendeva pazientemente che attraversasse il palcoscenico fino ad arrivare alla sedia. Si sedette, appoggiò le stampelle al suolo, rimosse i rinforzi dalle gambe, si sistemò nella sua posa caratteristica, un piede piegato all’indietro, l’altro spinto in avanti. Si piegò verso il basso per prendere il violino, lo trattenne fermamente con il mento e fece un cenno col capo al direttore d’orchestra per indicare di essere pronto. Era un rituale familiare per i fan di Perlman: il genio storpio che non dava importanza alla sua invalidità prima che la sua musica sublime trascendesse ogni cosa. Ma questa volta fu diverso. “Dopo le prime battute”, rammenta il critico musicale Houston Chronicle, “una delle corde del suo violino si ruppe. La si poté sentire spezzarsi con uno schiocco secco – esplose come un colpo di pistola attraverso la stanza. Non c’erano dubbi su ciò che significava quel suono. Non c’erano dubbi su cosa avrebbe dovuto fare”. Era ovvio – avrebbe dovuto posare il suo violino, rimettere i rinforzi per le gambe, prendere le stampelle, alzarsi in piedi, dirigersi faticosamente dietro le quinte e prendere un altro violino o cambiare la corda del suo violino mutilato. Ma non lo fece. Chiuse gli occhi per un momento, e poi segnalò al direttore d’orchestra di iniziare da capo. Tutti sanno che è impossibile suonare un brano sinfonico con solo tre corde. Io lo so, voi lo sapete, ma quella notte Itzhak Perlman finse di non saperlo. Suonò con una tale passione, un tale potere e una tale purezza… Si poteva vederlo modulare, cambiare e ricomporre il pezzo nella sua testa. A un certo punto sembrò come se stesse disaccordando il violino per ottenere dalle corde superstiti suoni che non avevano mai prodotto prima. Quando finì ci fu un silenzio di timore reverenziale. Poi il pubblico si levò, come una cosa sola. Eravamo tutti in piedi, urlavamo e applaudivamo – facendo tutto ciò che potevamo per mostrare quanto apprezzavamo ciò che aveva fatto. Egli sorrise, si asciugò il sudore dalla fronte, alzò il suo archetto per quietarci, e poi disse, non con vanto ma in un tono modesto, pensoso, riverente: “Sapete, talvolta è compito dell’artista scoprire quanta musica può ancora creare con ciò che gli è rimasto”.
19/12/2013 Filippo Maglione
Ringrazio Damiduck per la descrizione esemplare della folle serata al Lincoln Center.