Da molti anni seguiamo l’immagine di aziende legate al mondo del ciclismo, le cui principali fiere di settore si svolgono nel torno di tempo che va dalla fine di agosto alla metà di settembre. Questo ci obbliga a non intendere i tradizionali periodi dedicati al riposo come realmente tali. Anzi, agosto è tradizionalmente, per me in particolare, un mese di gravi impegni e responsabilità. Ma, quasi a voler sanzionare la celebre massima di Jerome K. Jerome (“È impossibile godere appieno dell’ozio se non si ha un sacco di lavoro da fare”) mai come in questo periodo dell’anno respiro nell’aria profumo di diversione, astrazione, che conduce al desiderio d’aria aperta, a un maggior contatto con la natura, ma anche e soprattutto all’ozio. Ozio che ha valore non nell’attuale versione deturpata ma solo nella sua verace accezione latina, derivata da aveo, ovvero “sto bene”. Nell’antica Roma l’ozio era davvero qualcosa di diverso dallo stare a rosolarsi in spiagge affollate compilando cruciverba: l’otium, contrapposto al negotium (il tempo degli affari, della professione), era il tempo che si dedicava ai propri studi, composizioni e speculazioni intellettuali.
L’ozio, sfruttando il molto lavoro (vedi Jerome) e il molto tempo libero dal lavoro che concede l’insonnia, lo coltivo in verità lungo tutto il corso dell’anno, ma in piena estate deve quindi conciliarsi con il desiderio d’aria aperta, di luce. Trovare un equilibrio non è facile, perció in questo periodo anticipo ancor più le ore lavorative per dedicare la parte del tardo pomeriggio alternativamente a due attività solitarie contrapposte, pur complementari: giri in bici e letture. Il giro in bicicletta ha il potere di svuotare completamente la testa. È uno svuotamento riempito certo di ebbrezza neuromuscolare, calore, profumi, silenzi assordanti di cicale, ma che infine può dirsi una sottospecie di panteismo smemorato a cui mi abbandono con fiducia puerile. Di contro la lettura, svolta sul tavolo della cucina di casa, all’ombra quindi di una piccola stanza, è un riempire la testa di stimoli culturali. Perció artificiali. È un gioco, piuttosto consapevole, del naturale contro l’artificiale, dello svuotamento che anela riempimento, e viceversa.
Ho sempre pensato che dentro a una testa, forse a qualsiasi testa ma alla mia di sicuro, non ci puó stare tutto ció che si desidera ma solo ció che ci è concesso da naturali limiti di capienza, per cui da anni mi impegno a selezionare per bene i processi cognitivi, convinto di doverli limitare a forza. Come so di aver bisogno ciclicamente di svuotare la testa dagli inutili residui accumulati. In questo senso ho mille accortezze nell’approcciare le attività intellettuali, proprio per non rischiare di occupare invano o maldestramente l’esiguo spazio (mentale) a mia disposizione. Per esempio evito le settimane enigmistiche considerandole inutili sprechi d’attenzione e di memoria, cosí come tutti i giochini, i test, quiz e prove d’intelligenza piú o meno precostituite. Lascio tutto a chi ha capienze maggiori. Uno degli strumenti che da molti anni ho adottato per riempirmi la testa di stimoli, e che inoltre ritengo sia un ottimo “livre de chevet” per chiunque svolga una complessa attività intellettuale, è invece la Domenica del Sole 24 Ore. Ne accenno spesso, e non a caso, nelle mie istantanee. Si tratta di una lettura che svolgo nell’arco di una settimana e che, tramite associazioni trasversali, mi consente, tra le altre cose, di migliorare considerevolmente il livello dei miei lavori. Le svariate sollecitazioni che questa lettura solleva, si rivelano infatti utili allo sviluppo di idee che diventano poi temi di campagna, slogan, testi pubblicitari; oppure diventano pretesti per ravvivare cataloghi di prodotto che altrimenti mancherebbero di quella personalità e originalità necessarie a spiccare nei confronti della concorrenza. Per esempio recentemente alcuni articoli, come sempre congegnati con acume, sui temi delle scienze cognitive e delle percezioni visive hanno risolto indirettamente il dilemma di come connotare stilisticamente e a livello di slogan la campagna di presentazione delle nuove biciclette da competizione Cipollini, infine denominata Open your eyes. Era necessario destare attenzione nei confronti di prodotti che sono visibilmente (e incontrovertibilmente) diversi da quelli della concorrenza, diversità che appare flagrante nel momento in cui si riesca a guardare in faccia la realtà, smettendo di sonnecchiare adagiati sui luoghi comuni. Grazie alla lettura di quegli articoli ho abbandonato una prima idea di slogan e visual più complessi e articolati per concentrarmi sulla soluzione più semplice e attenzionale. Questo è un esempio molto pratico e diretto, che diventa istantaneamente visibile e comprensibile, declinato com’è in copertine di catalogo e pagine pubblicitarie.
Potrei illustrare molti lavori condizionati dalla lettura del supplemento domenicale nell’ultimo paio d’anni, ma invece mi rivolgo a un altro nostro recentissimo lavoro, l’immagine della collezione autunno inverno Belvest 2012-13, in cui il Sole 24 ore compare in foto concretamente, e stavolta proprio il quotidiano economico e non il settimanale che ne è l’allegato domenicale. Il foglio del giornale volante, guardato con statuario distacco dal giovane uomo elegante, vuole rappresentare a una prima lettura simbolica un sottile richiamo ai tempi di crisi in cui tutto ci appare aleatorio, in primis l’economia e la finanza. Una crisi che però non deve condizionarci al punto d’abbrutirci, di qui l’espressione fiera, a testa alta, del giovane uomo che pare quindi sfidarla, la crisi. In cuor mio ho voluto che fosse anche una rappresentazione del dandy, figlio prediletto dell’otium come coronamento di tutte le virtù, che si cura di crisi e di borsa, a cominciare dalla sua, molto meno che del nodo della cravatta (“è lo stile la cosa essenziale: una cravatta ben annodata è il primo passo importante nella vita” - Oscar Wilde, ovviamente). Anche a costo d’apparir irrispettoso nei confronti di chi la crisi la sta pagando con la precarietà e la mancanza di mezzi di sussistenza, credo di poter dire che sia proprio il dandy uno dei pochi “tipi umani” a poter essere assurto a simbolo di estremo baluardo alla crisi. Come conferma benone un maestro contemporaneo del dandismo, Giuseppe Scaraffia (citazione tratta da un domenicale d’un paio d’anni fa, a dimostrazione di come questo foglio vada non solo letto, sottolineato, meditato, ma anche conservato e accuratamente catalogato - sempre utile alla bisogna):
“La crisi sta inaspettatamente rigenerando un mito elegante, quello del dandy. In un periodo di insicurezza come questo, in cui il futuro appare incerto, il culto del dandy, inattuale per eccellenza, non può non affascinare. Chi si sente dandy oggi? Come nel passato tutti gli insoddisfatti di genio, coloro che si sentono limitati o traditi dalla loro definizione sociale, i delusi dalle speranze rivoluzionarie e i nostalgici di quelle reazionarie. Sono un’élite non riconosciuta, silenziosamente eversiva, metodicamente eccentrica e intenzionata a non confondersi con la borghesia, né con la bohème artistica. Sono coloro che si rifiutano di soggiacere ai miti della società di massa e preferiscono la solitudine alla resa e alla banalità diffusa”.
Le parole, come sappiamo, presentano giganteschi problemi nell’uso. Problemi a volte ironici, davvero molto divertenti, se penso che più di qualcuno in passato ha pensato d’offendermi dicendomi dandy.
03/09/2012 Filippo Maglione