Questo di norma è il periodo in cui siamo impegnati nello sviluppo dei video promozionali (di brand o di prodotto) che presenteremo nelle fiere di fine estate per conto di alcuni nostri clienti. Perciò ho l’abitudine di annotare i video che più mi hanno colpito nel corso dell’anno, non tanto per innalzarli a modello quanto perché fungano da stimolo, oppure, più modestamente, perché capaci di sollecitare lo sfruttamento di alcune soluzioni tecnico-formali. A volte è l’uso di un viraggio cromatico in post produzione, altre volte un particolare ritmo del montaggio, o anche solo l’impostazione dei titoli e delle sovraimpressioni. Quest’anno l’elenco dei video ragguardevoli è sguarnito come non mai. Nessuna clip, nessuno spot, nessun cortometraggio o lungometraggio mi è sembrato contenesse barlumi di novità o accenni di rimarcabile bellezza, tranne un insospettabile, e ostico, film polacco del 2013.
“Chi mai andrà a vedere un film polacco in bianco e nero ambientato nei primi anni ‘60, che parla di una novizia e di sua zia? Uno spettatore (masochista) su mille, probabilmente”. Così il sagace Massimo Bertarelli introduceva la recensione sul Giornale. In effetti la nuda trama di Ida, questo il lapidario titolo del famigerato film, ha un che di respingente. Polonia, 1962. La diciottenne Anna, orfana cresciuta in convento, ha deciso di farsi suora. Tuttavia, poco prima di prendere i voti, sollecitata dalla suora superiora, va a far visita all’unica parente ancora in vita, Wanda, sorella di sua madre. Insieme a lei la ragazza affronterà un viaggio alla scoperta di sé e del proprio passato. Scopre, infatti, di avere origine ebraiche, che il suo vero nome è Ida e che sua zia è un ex pubblico ministero comunista, responsabile di numerose condanne a morte. Mentre Anna va alla ricerca della tragica verità sulla sua famiglia, Wanda deve anche confrontarsi con le decisioni prese ai tempi della guerra, che ancora la perseguitano. La storia, la grande e terribile storia del ‘900, fa quindi da sfondo a un doppio viaggio iniziatico.
Ammetto che alla prima visione, casuale e notturna, non ho badato tanto alla trama e agli intrecci tra i personaggi, quanto all’impianto scenico e formale. Da un certo punto in poi sono stato letteralmente soggiogato, immerso nel ritmo lentissimo scandito da una camera sempre fissa, dalla cura spasmodica e dall’eleganza neoclassica di ogni singola inquadratura, dall’uso pittorico della luce, dalle raffinate scelte musicali, eclettiche e perfettamente inserite nel racconto (Mozart e Bach ma anche Buscaglione e Celentano), dalla profondità di campo e dalla purezza di un bianco e nero capace di sfruttare l’intera gamma dei grigi. Sono rimasto colpito, soprattutto, da un rigore formale che non appare mai pretestuoso, mai di facciata e fine a sé stesso ma sempre aderente alle atmosfere, ai luoghi e ai personaggi che vuole descrivere, in una consonanza così perfetta da non far sentire mai come un peso i dialoghi ridotti all’osso, le reticenze e i lunghi silenzi. E, fatto non trascurabile, il tutto senza mai essere appesantito da onanistiche metafore e simbologie, così tipiche di certa cinematografia da festival del cinema d’autore. Perfino il formato quasi quadrato (1:1.33), che normalmente recepisco come un grave limite (la nostra vista è panoramica), mi è parso attagliarsi a perfezione, riuscendo a contenere al meglio una struttura visiva che merita di non venire dispersa ai bordi. Ho interrotto la visione più volte per congelare singoli fotogrammi. Nella galleria fotografica della home page del sito Helvetika ho inserito una serie di questi fotogrammi. Potrebbero essere scambiati per una serie di scatti fotografici a tema, opera di un artista del secondo dopoguerra (attrezzato di banco ottico, analogico naturalmente).
Dicevo che alla prima visione non mi sono curato molto dei personaggi e dell’intreccio. In realtà non mi sono curato dei personaggi solo perché erano loro a curare me. Le due protagoniste non mi sembravano due esseri umani, quanto due veri e propri sentimenti. Due sentimenti fortissimi, diversi e indipendenti ma in relazione dialettica, perciò dinamici e potenzialmente instabili. Il viaggio di scoperta non era trasmesso dai loro movimenti o dal movimento di macchina (per altro immobile, congelata), quanto dai loro sguardi: mobilissimo e diffidente quello della ragazza; fisso e indifferente quello della zia (specie nei pressi del suicidio che, scandito dalle soavi note mozartiane, ha un che di desiderabile, descritto a quel modo).
Così sono giunto alla parte finale, e decisiva, del film. La ragazza, di ritorno dal viaggio, in prossimità della presa dei voti viene colta dal dubbio e rinuncia. Torna dalla zia per il suo funerale. La sera dopo dismette la tonaca da novizia, si scioglie i capelli, sceglie un abito elegante dal guardaroba della zia, balla a piedi nudi con il giovane e bellissimo sassofonista conosciuto durante il viaggio e infine gli si concede - forse memore di un dialogo in cui dicendo che non aveva mai avuto pensieri carnali peccaminosi si sente rispondere dalla zia che avrebbe invece dovuto averne, di quel genere di pensieri, e magari provare quel peccato prima di prendere i voti (“Altrimenti che sacrificio sarebbe il tuo?”). Il breve dialogo che segue il rapporto sessuale, rapporto peraltro accennato con grazia impagabile, apre uno spiraglio, o meglio il miraggio di un’altra vita, ben diversa da quella assaporata all’inizio del film nel ritmo ripetitivo e monotono del convento in cui è stata relegata fin da neonata. Lui le chiede di seguirlo a Danzica, dove il giorno dopo avrebbe suonato. Lei, fissandolo negli occhi con lo sguardo puro e ridente, gli chiede: “E poi?”. Con dolcezza lui le spiega che potranno vivere insieme, prendersi un cane, una casa, sposarsi, avere dei figli. Ma lei lo incalza: “E poi?”.
“E poi ci saranno i problemi”. Non so bene quale sia il tono di questa risposta, se il ragazzo stia scherzando o facendo sul serio: la camera riprende lei di fronte e lui praticamente di spalle. All’alba Anna-Ida si alza in silenzio mentre il ragazzo ancora dorme, si riveste da novizia, impugna la valigia ed esce. Qui la macchina da presa per seguirla, per adeguarsi al suo passo, per la prima volta si muove con un carrello laterale, poi frontale. Questo doppio movimento di macchina credo sia l’unico simbolo visivo speso dal regista: il simbolo di una scelta, di un viaggio verso qualcosa di preciso, frutto di una decisione forte e consapevole proprio perché comparata all’alternativa di vita da cui sta prendendo le distanze. E quando lei, più bella e decisa che mai, viene ripresa di fronte... parte l’affondo, il tocco di classe che ammanta l’opera di un puro senso teologico, che scava nel senso della vita. Sorge, dal silenzio ambientale della campagna di prima mattina, la cantata “Ich ruf’ zu dir, Herr Jesu Christ” (Ti invoco, Signore Gesù Cristo) di Johann Sebastian Bach trascritta da Ferruccio Busoni per pianoforte, interpretata con sentimento da un giovane Alfred Brendel. La musica non accompagna la scelta della protagonista, “è” la scelta. Quella musica “è” la vita appartata e modesta che si appresta ad affrontare per sempre, “è” la bellezza in grado di trasformare la banalità del mondo (la vita è sperpero, confusa dimenticanza) in poesia. Quella musica dà un senso compiuto ai suoi “E poi?”.
A proposito del dialogo tra i due improvvisati amanti, che trovo tra i più pregnanti ed economici della storia del cinema (quanto meno del “mio” cinema): ho sempre creduto, probabilmente sbagliando, che la filosofia chieda con coraggiosa improntitudine “Perchè?”, che la scienza si limiti a chiedere “Come?” e che la religione abbia l’ardire di chiedere “E poi?”. Si può essere incapaci di chiedere sul serio “E poi?” (io ne sono perfettamente incapace) ma è difficile non restare ammirati dal senso di questa domanda, che può essere evasa solo nel lampo di un brano musicale dalla bellezza ultraterrena.
C’è stato un attimo all’inizio di questa prima visione in cui ho temuto di non essere più in grado di recepire immagini così diverse e particolari, cariche di tanta bellezza. Per un attimo, un attimo di debolezza, ho pensato: “Questo film è troppo lento”. Poco dopo, di fronte a una costruzione dell’immagine esageratamente armoniosa ho pensato: “Va bene, ma questo qui (il regista, Pawel Pawlikowski) se la tira un po’ troppo”. C’è una forma d’ignoranza che credo nasca attorno a un eccesso d’informazione, così come si può diventare ciechi per un eccesso d’immagini e sordi per un eccesso di rumore. Si può finire per non vedere più non per un calo della vista ma per aver visto troppo. Forse noi, impastati degli stereotipi pubblicitari che recepiamo navigando in rete e nella vita, e in cui le cose e gli affetti si confondono con la loro rappresentazione, finiamo per evitare la bellezza trovandola troppo lenta, troppo armoniosa, troppo profonda. Troppo bella, appunto. Ci sfugge la mistica delle cose ordinarie, dei tempi dilatati, del respiro profondo. Con tutte le immagini che ci passano sotto il naso non riusciamo più a fermarci a osservare i dettagli di una sola. Al limite cogliamo, in velocità se non proprio con frenesia, un insieme un po’ confuso di tutte. Siamo sopraffatti dalla “visione sintetica”.
L’invito a vedere un film come questo diventa quindi un’esortazione accorata, se lo intendo anche come esercizio di visione, nella ricezione di quel particolare ritmo su cui si regge la struttura di un’opera che è un piccolo capolavoro fuori dal tempo e che riesce a definire un po’ meglio il senso di una delle nostre domande esistenziali.
24/03/2016 Filippo Maglione