Tra i lavori svolti di recente mi piace segnalare il contributo prestato all’Unicef e all’Università di Padova; il progetto dell’immagine 7D; lo sviluppo finale dell’identità aziendale Suavia, iniziata un paio d’anni fa e progredita tratto a tratto, in sintonia con ‘lo spirito dei tempi’ del vino.
Ho trattato altrove, esaltandola, la figura retorica detta perifrasi, ovvero l’uso di molte parole in luogo di una sola. Ora mi trovo a esaltare qualcosa che somiglia al suo contrario, ovvero l’ellissi, fatta di lacune, reticenze, omissioni. L’occasione l’ha fornita la visione del film “Angelo”, capolavoro del 1937 di Ernest Lubitsch, regista berlinese attivo a Hollywood sin dai primi anni ‘20.
Il film presenta un classico triangolo, sentimentale e sessuale, non molto originale. Una donna bellissima, insicura ma innamorata del marito (poco presente, fin troppo sicuro di sé ma ugualmente innamorato), per ingannare la noia si trova quasi involontariamente impelagata in una relazione con un altro uomo.
Non sappiamo nulla della donna, una Marlene Dietrich sfolgorante; nulla del suo presente, nulla del suo passato. Scopriamo che è sposata solo dopo aver assistito al lungo incontro con quello che diventerà l’amante (dialoghi estesi eppur brillanti e calibrati). A metà del film i due uomini entrano fortuitamente in contatto, scoprendo d’essersi già incrociati parecchi anni prima. In breve familiarizzano, fino a organizzare un pranzo a cui parteciperà la donna dei loro desideri - senza sapere che l’amante dell’uno è la moglie dell’altro. Alla fine, risultando palese il triangolo, il marito rimetterà in gioco le sue sicurezze frustrate, la moglie le sue insicurezze frustranti. Entrambi arrivano a percepire che il sentimento verso l’altro è superiore a qualsiasi sicurezza e insicurezza, e decideranno di ricominciare insieme. L’amante resta al palo.
È un film rarefatto, elegantissimo, costellato di scene-madre (con solo alcuni irresistibili intermezzi comici delegati al personale di servizio della coppia di coniugi) che tratta di amore, sesso e infedeltà, ma che è minato alla radice dai dettami del codice Hays, che in quegli anni imponeva a registi e produttori una censura relativa al sesso finanche ridicola. Anzitutto per questo, per necessità, il film è letteralmente strutturato attorno a lacune, reticenze, sottintesi, allusioni, metafore (memorabile come la musica divenga metafora del sesso). Ma soltanto un genio con il ‘tocco’ di Lubitsch poteva trasformare una ferrea e castrante censura non solo in un punto di forza, ma nel fulcro stesso di una cifra stilistica che ha fatto epoca e che a tutt’oggi resta ineguagliata.
Dall’inizio alla fine il film non dice, non mostra, omette volutamente i retroscena, i passaggi e le situazioni-chiave, del resto indicibili, lasciando sospese tutte le scene (tranne l’ultima) e inserendo invece nei punti strategici una immagine o una frase capaci di evocarne e connetterne altre. Fino a connetterle tutte. In questo modo qualsiasi spettatore dotato di normale attenzione e perspicacia è in grado di formare da sé, attraverso il ragionamento, un’idea sui particolari dell’intreccio tripartito. Lubitsch lascia all’immaginazione dello spettatore il compito di colmare i vuoti. E un conto è capire qualcosa grazie a qualcuno che te la spiega per filo e per segno; un conto è pensare di capire da sé, grazie alla propria intelligenza. (Proporre qualcosa di esaustivo in modo didascalico significa trattare gli altri da stupidi). Il discorso ellittico fornisce così a una intelligenza quanto meno ordinaria la capacità di esprimersi in termini creativi, pur con le cautele del caso, visto che si sta comunque parlando di un gioco di specchi organizzato da un grande regista e dai suoi sceneggiatori (ma a cui, come detto, il ricettore partecipa pur sempre in modo attivo).
Si capisce, grazie a questo esempio, come l’efficacia di una comunicazione non sia strettamente legata alla libertà d’espressione di cui si gode, o alla completezza dell’informazione che si offre, e non è nemmeno effetto della tanto decantata brevità (il film dura la canonica ora e mezza per illustrare un intreccio elementare e succinto). L’efficacia, in questo caso che ritengo emblematico oggi come allora, sta nel far partecipare direttamente lo spettatore a un gioco che vede protagonista la sua stessa intelligenza, capace di unire vari punti nodali senza i tradizionali tratti intermedi di raccordo. Ha quindi a che fare con la felicità che credo (e spero) chiunque debba provare nel vederla funzionare, la propria intelligenza.
È una lezione, anche professionale, che proviene da un mondo lontano ma che guarda prepotentemente a un futuro sempre più connesso e interattivo, e che mi sforzo di apprendere. Ed è qualcosa che ci insegna come proprio grazie a difficoltà che appaiono insormontabili (per esempio censure ferree e castranti), possano esprimersi nuovi stimoli creativi, strutturarsi inaudite novità formali, vedere la luce capolavori senza tempo.
01/12/2014 Filippo Maglione