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Grafica e comunicazione

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Dell’amare il proprio lavoro

“Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”. 
È una celebre frase di Primo Levi. Dovrei farne un salvaschermo, per poterla rammemorare ogni mattina. Il nostro è infatti un mestiere bellissimo, che oltre tutto amo da sempre. Con le sue difficoltà, beninteso, o forse proprio per queste. È infatti una continua scommessa, una prova d’intelligenza giocata sul filo dell’imprevedibilità, un inesausto tentativo di raccordare problemi di natura diversa per far scaturire sintesi nuove (si spera lo siano sempre, almeno parzialmente). Sintesi formali e concettuali. Tutto questo assicura varietà, in relazione, anzi a contatto stretto con la bellezza. Cosa c’è di meglio, mi chiedo. Certo: siamo costantemente sotto scacco, sotto giudizio. Certo: è indispensabile allenare la nostra parte d’umiltà per accettare anche critiche approssimative che tengono conto di solo alcuni dei motivi razionali che ci hanno portato a talune conclusioni piuttosto che a tal altre. Critiche non sempre giustificate, quindi, a cui a volte dobbiamo piegarci - e non è bellissimo. Poi oggi c’è la famigerata crisi che taglia i budget per cui anche i tempi, e con questi la possibilità stessa di poter ponderare con accortezza le proprie scelte e soluzioni... Ma sono problemi da poco, dettagli, piccole nuvole in un orizzonte vasto e luminoso.

Ma c’è una cosa del nostro mestiere, una sola, che da sempre mi affligge. Riguarda la sfera dell’etica e concerne la parte più propriamente “pubblicitaria”, ovvero il problematico rapporto tra persuasione e rettorica (per dirla al modo di Carlo Michelstaedter). Tratta del conflitto, anzi della lotta senza quartiere tra la persuasione, il tentativo di giungere al pieno possesso di sé, e la rettorica, l’apparato di illusioni in cui ci immergiamo per occultare il fallimento della persuasione... In parole povere e nello specifico: del contenuto di menzogna in pubblicità, che è “anche” un apparato retorico micidiale che deve indurre surrettiziamente la persuasione in chi guarda. Ovvero l’apparato di finzioni messe in campo dai pubblicitari per convincere il consumatore, oltretutto in un mondo che sembra aver perso il sostegno d’ogni tipo di persuasione (fede, saldezza morale, consapevolezza, dignità).

È un argomento delicato, che non può certo essere liquidato in una istantanea e che mi riprometto di approfondire convenientemente in futuro.

Nel mio piccolo ho però una fortuna: i clienti mi permettono di “dire la verità”, per quanto è consentita in questo mondo, perlomeno. Se c’è qualcosa che accomuna quasi tutti i nostri clienti è infatti relativo al costante e sincero sforzo qualitativo. Non a caso si tratta sempre di aziende che producono e offrono servizi per nicchie di appassionati. L’attenzione allo sviluppo del prodotto e del servizio è sempre massimo, quindi, sia per necessità commerciali (soddisfare i target, anzitutto) che per indole personale dei dirigenti o dei proprietari (che altrimenti avrebbero scelto beni e servizi meno dispendiosi e quasi sempre più remunerativi). Facendo un più concreto esame di coscienza e analizzando campagne che sembrano a tutta prima “esagerate” realizzate in tempi diversi, quali alcune storiche di Pinarello o quelle recentissime per Cipollini, mi sento di poter affermare che erano e sono delle semplici enfatizzazioni o metaforizzazioni della realtà. E lo posso dire a ragion veduta perché prima di urlare al mondo la qualità di prodotti e servizi... tendo a testarli con molta cura. E qui sta un altro motivo che mi fa amare il mio lavoro: sono “costretto” a cibarmi dagli Alajmo, a bere i distillati di Capovilla e gli Champagne e i Borgogna di Giulio Menegatti, vestire Belvest, cavalcare una Cipollini, indossare Giordana e DMT... insomma: a vivere nel lusso pur non essendo ricco. 

Tra pubblicitari c’è un detto autoironico: la verità non è proporzionale alla comunicabilità. Un modo elegante per dire che il pubblicitario deve per forza bluffare per colpire. Nel mio caso, invece, dire la verità, dopo aver constatato l’eccellenza assoluta di ciò che si deve propagandare, è sin troppo facile; è qualcosa che fa star bene, che rasserena anche la parte morale. Parafrasando Musil posso concludere dicendo che grazie ai miei clienti non inseguo la verità, è la verità che insegue me.

02/03/2012 Filippo Maglione