L’amore per la grafica mi deriva dall’amore per i libri.
Libri intesi sia come oggetto fisico che come testo, contenuto. Ma credo di ricordare che il primo impulso amorevole fu rivolto proprio all’oggetto in sé, ai fogli ornati di caratteri tipografici tenuti insieme da una rilegatura. Ricordo ancora l’emozione nel sentire il rilievo del carattere a stampa, passando delicatamente la mano sul foglio. Una parte consistente delle mie scelte vitali la devo quindi ai caratteri tipografici, al fascino che hanno esercitato nell’età decisiva.
Da professionista ho però sempre dialogato con pochissimi caratteri. Per elencarli non devo contare a lungo. Arrivo a mezza dozzina, forse. Se ce ne sono altri nel portfolio è per colpa (o merito) dei miei collaboratori. Semplicemente credo che i caratteri precisi siano pochissimi. Precisi per la mia idea di grafica, la mia idea di bellezza, va da sé; anche se potrei razionalmente elencare le qualità dei caratteri prescelti e le pecche, spesso gravi, dei rifiutati. Dell’Helvetica non occorre nemmeno parlare, basta la parola. Ma c’è un carattere, per certi versi opposto, che ammiro più o meno allo stesso modo; un carattere entrato nella leggenda e che suona benissimo: Bodoni. Al contrario dell’Helvetica non è un carattere perfetto. Stampato (e letto) piccolo presenta dei problemi per una grazia troppo sottile, specie in rapporto all’asta verticale. Poi è indubbia una certa rigidità nell’insieme, compensata certo da una splendida grazia a bottone, da aperture, punti di raccordo e intradossi a regola d’arte. È quindi un carattere incostante, difettoso. Quasi che l’inaudita bellezza l’avesse reso un tantino lezioso, freddino, indolente. Va trattato come si deve, quindi, con tutte le accortezze specie quando si è costretti a un corpo piccolo, o al negativo, testo chiaro su fondo scuro: in questi casi sono preferibili versioni meno estreme, che privilegiano una grazia più consistente che si avvicina all’originale bodoniano - all’epoca dei caratteri mobili cesellati a mano certi eccessi di proporzione erano inammissibili. Le versioni recenti lasciano perplessi proprio per una grazia finissima, esasperata improvvidamente dai disegnatori digitali.
In questo periodo ho avuto il piacere di dialogare con Bodoni tre volte. Stranamente, e del tutto involontariamente, sempre in ambito enologico. La qual cosa potrebbe insospettire, dato che non esiste carattere classico meno legato all’ebrezza e al calore. Ma credo che lo stimolo sia nato proprio con l’intento del riequilibrio. Nei primi due casi questa è una motivazione congrua.
Nel lavoro Massi Fitti dell’azienda agricola Suavia si trattava infatti di ‘riequilibrare’ elegantemente un lettering a pennello grosso su carta granulosa; abbiamo quindi optato per un Bodoni meno rigoroso, con la grazia leggermente mossa (Bodoni ITC). Nell’immagine dello Champagne Philippe Gilbert il carattere austero (il più lineare Bauer Bodoni) sorregge invece l’imaginifica opera di Chagall ‘La Promenade’; la manina della ragazza lanciata per aria pare aggrapparsi al serioso cipiglio bodoniano. In questo caso, come nel terzo e ultimo, l’immagine GMF (ovvero Giulio Menegatti, il più aristocratico tra gli importatori di grandi vini francesi), il piacere di dialogare con Bodoni è stato doppio. Si è trattato infatti di due committenze legate alla Francia, ed è sempre un gran gusto opporre ai francesi le nostre eccellenze, specie in quei campi in cui loro si sentono fichissimi (e con Didot nel carattere tipografico neoclassico hanno ragione a ritenersi tali - ed è nota la diatriba dei critici su chi dei due tra Firmin, il francese, e Giambattista, l’italiano, sia da considerarsi superiore. Per noi, evidentemente, il dilemma non si pone e abbiamo sbattuto in faccia ai francesi, con orgoglio, la nostra predilezione).
Di Bodoni, infine, mi restano due piccole storie personali legate direttamente alla sua opera. La prima rimonta a una quindicina d’anni fa, all’acquisto di un originale di Bodoni in-folio, l’Aminta del Tasso edizione 1793: l’emozione più grande relativa a un acquisto materiale, anche se in realtà un libro del genere è meno un evento materiale che spirituale. Passo ancora oggi mezze giornate (festive) a rileggere, ovvero a far suonare mentalmente, l’opera del nostro sfortunato poeta laureato; ad annusarne le pagine, insieme dolci e acri, a scrutarne le sottili grazie inchiostrate senza sbavature, ad apprezzarne il nero profondo, le lievi macchie della carta a mano, gli allineamenti impeccabili, a tastarne coi polpastrelli i rilievi dei piombi e del torchio. Sono travolto dai margini smisurati, monumentali. Resto sempre sbigottito dal perfetto allineamento che apprezzo in trasparenza. C’è dentro di tutto: libidine fisico-spirituale, maniacalità letteraria, perversione inchiostro-cartacea.
L’altra emozione è più recente: la lettura dell’introduzione (‘Giambattista Bodoni a chi legge’) al suo Manuale tipografico, stampato postumo a cura della vedova nel 1818 e riprodotto nel 2010 dalla benemerita Taschen. Alla fine di una vita spesa al servizio dell’arte tipografica, Bodoni illustra le sue conoscenze con serafica precisione e giusta considerazione di sé. Quello che salta all’occhio è che al dato meramente tecnico Bodoni antepone una vera e propria morale tipografica, completamente andata perduta nell’ambito professionale che oggi si fregia, a torto, dello stesso nobile titolo (tipografo) usato dal nostro. Così Giambattista, parlando della sua arte:
“L’idea del Bello non dee certamente confondersi con quelle del Buono e dell’Utile; ma elle sono però come tre diversi aspetti d’una cosa sola veduta da tre diversi lati. La stampa di un buon libro tanto più giova, quanto essa da più gente, e più volte, e più volentieri, e più speditamente il fa leggere. [...] E quanto più un libro è classico, tanto più sta bene che la bellezza de’ caratteri vi si mostri sola. [...] Ma forse più sicuro è ristringerci a dire che han grazia le lettere, quando sembrano scritte non già con isvogliatezza o con fretta, ma piuttosto, che con impegno e pena, con felicità ed amore.”
15/02/2012 Filippo Maglione