“Se amo, ogni speranza. Se non amo, nessuna”.
La domanda, che pare espunta da un libretto della serie Harmony, è invece al centro di una delle più famose inchieste organizzate dai Surrealisti. Sì, proprio il gruppo di ribelli (verso le convenzioni morali e sociali della cosiddetta borghesia) che ha imperversato in Europa, e in particolare a Parigi, all’inizio del secolo scorso. Il gruppo fantasmagorico ed esagitato dei Breton, Aragon, Eluard, Tzara, Artaud, Dalì, Ernst, Magritte e compagnia scrivente e pitturante. La risposta, stupenda nella sua radicalità, è di uno di loro, Luis Buñuel, che nella godibile autobiografia (Dei miei sospiri estremi) precisa: “Amare ci sembrava indispensabile per la vita, per qualsiasi azione, per qualsiasi pensiero, per qualsiasi ricerca. Oggi (lo scriveva nei primi anni '80), a quanto dicono, amore e fede in Dio sono sulla stessa barca. L’amore tende a sparire. Lo si considera come fenomeno storico, un’illusione culturale. Lo si studia, analizza, e se possibile lo si guarisce. Protesto. Non siamo stati vittime di un’illusione. Anche se qualcuno stenta a crederci, abbiamo amato sul serio”.
A parte la bellezza cristallina di queste parole, occorre intenderci attorno al significato che il regista spagnolo attribuisce alla parola amore (che sembra essere un fantasma inafferrabile che popola i nostri discorsi e fantasie, proprio come la parola libertà). Mi sforzo di pensare a cos’altro associare alla parola amore per meglio comprenderla, per tentar d’afferrare un qualsiasi significato più compiuto. Lo faccio guardando da vicino le opere e le azioni dei surrealisti, che consideravano appunto l’amore come il fulcro del loro lavoro, anzi, della loro stessa vita. Ma soprattutto le azioni dei grandi innamorati che la storia, la letteratura e la religione ci hanno tramandato, a volte fiabe ad uso del popolo-bue, ma non per questo meno emblematiche. Guardo da vicino anche le persone che conosco e che sembrano amare con verace passione. E dall’insieme riesce a emergere un’altra sola parola-chiave che accomuna tutte queste storie. E la parola è gratuità (i surrealisti si dispersero - dispersero i loro ideali - quando cozzarono contro la politica e il denaro, non a caso).
Recentemente in due momenti distinti, in ambito professionale, mi è capitato di ripensare alla forza della gratuità, che è nient’altro che la forza dell’amore.
La prima volta durante i preparativi alla cena che ogni anno organizziamo con il Gusto per la Ricerca, in cui i più famosi chef d’Italia danno vita a un evento memorabile a sostegno della Città della Speranza (e, a rotazione, ad altre Onlus che operano a favore dei problemi dell’infanzia). Il fervore e la gioia contagiosa di questi uomini (spesso davvero geniali), l’impegno che profondono... non solo non sono minori rispetto a quando svolgono le loro normali mansioni professionali, paiono di gran lunga maggiori. Quasi che l’evento, slegato da qualsiasi “utile”, liberasse ancor più la loro forza genuina, quasi infantile; purificata, gratuita appunto.
L’altro momento è legato a Gianni Capovilla. In un paio d’anni di assidua frequentazione (abbiamo curato l’immagine istituzionale della sua gloriosa azienda) ho potuto approfondire il carattere di un uomo conosciuto prima d’allora solo a livello liquido grazie ai suoi incomparabili distillati di frutta. All’interno della sua azienda ho visto compiersi costantemente azioni temerarie volte alla qualità assoluta. Ebbene, sono certo che pur con scelte meno radicali la percezione del consumatore, anche il più esperto e smaliziato, nei confronti dei suoi prodotti sarebbe identica. Credo lo sappia anche lui. Perché lo fa, allora? Perché compie costantemente queste faticose, costosissime, e infine gratuite, azioni? Una puntualizzazione (che oltre tutto apre a un'altra parola-chiave) ce la fornisce lui stesso, con la sua tipica serenità a voce roca impastata di nicotina: “Ogni giorno scopro di avere un futuro, perché ogni giorno ho qualcosa di nuovo da scoprire. È la gratificazione straordinaria di questo mestiere, pertanto non mi abbandono mai a ‘facili cose’. Ho troppo rispetto del mio lavoro”.
La parola è rispetto. Rispetto di sé, anzi tutto, per poterlo poi riversare sugli altri. Rispetto di sé: preliminare alla gratuità, quindi all'amore (nei confronti delle persone, ma anche del proprio lavoro).
Mi piace chiudere questa riflessione con le parole che l’indimenticabile Gino Veronelli dedicò a Gianni Capovilla: “Se non fai tu quello che fai, non lo fa proprio nessuno. Non è tanto una responsabilità, quanto la tua vita”. Un giusto premio al nostro Capo (che però, definendone l’unicità, diventa anche una sottile reprimenda al resto del gruppo) da parte di questo surrealista e anarchico puro, innamorato pazzo del bello e del buono, che per primo aprì gli orizzonti in ambito enogastronomico a una intera nazione.
13/01/2012 Filippo Maglione