Grazie all’acume degli amici Max Alajmo, chef di fama mondiale, e Maurizio Tiso, noto analista finanziario americano, mi trovo ad argomentare ancora attorno alla creatività e ai suoi delicati meccanismi. Entrambi, separatamente, hanno postillato la mia precedente istantanea “La creatività sta a monte del Martini”. Max contesta l’uso stesso della parola “creatività”, definendolo improprio, impreciso, esagerato, non attinente ai fatti, nella convinzione che l’atto creativo non possa concernere realmente gli uomini: “Il distillato di genio e talento si traduce in arte e non in creazione... Noi assembliamo, mescoliamo, trasformiamo, scopriamo ma non creiamo niente alla radice... Le nostre creature sono i figli, che peraltro derivano da un dono ricevuto...”. Così Max, come sempre profondo, sagace. Maurizio chiede invece lumi sulle presunte differenze tra talento e genio, secondo lui non ben definite nel mio precedente intervento. Indirettamente entrambi mi chiedono di spiegar meglio, e di questo non posso che ringraziarli: mi piace argomentare sul senso delle parole.
Per rispondere a Max mi sento di dire che nel concreto le visioni sostanzialmente collimano e semmai il nostro è un problema relativo al rapporto fra linguaggio e realtà, quasi facessimo parte ognuno delle scuole filosofiche medievali contrapposte, i Nominalisti e i Realisti. Semplice problema d’interpretazione delle parole, insomma; alla base del quale c’è forse il mio amore sconsiderato verso il dire poetico, per il gigantesco margine interpretativo, e di dubbio, che apre nei confronti del reale (interpretazione e dubbio come vero spazio di libertà, dominato dalla parola più che dai fatti). Il percorso intellettuale di Max, affatto diverso, può da solo giustificare il piccolo malinteso.
Credo però che le origini di questa diatriba riposino anche nella natura stessa del nostro linguaggio. Restando all’uso consueto e non strettamente poetico della nostra lingua, le parole lasciano comunque ampi margini d’interpretazione, cioè di dubbio e d’imprecisione. Questo ne condiziona l’uso. Ci si può giocare fino alle estreme conseguenze (lo stesso Max è un irresistibile acrobata del gioco di parole, del calembour). Una parola può voler dire svariate cose, a volte addirittura contrastanti. Cause scatenanti malintesi, ma anche fantasie, diversioni. Sono convinto che le qualità (e i difetti) e il conseguente uso delle diverse lingue, caratterizzino e forgino i popoli più di quel che si creda. L’inglese, per esempio, è una lingua molto più precisa della nostra e non è un caso se in generale i nostri bizantinismi sono così poco apprezzati dagli anglosassoni. Noi siamo figli diretti della consecutio temporum dei latini, figli degli arditi costrutti ciceroniani, per cui il gioco sul filo del rasoio non solo ci è consentito dalle regole lessico-logico-grammaticali, ci è quasi imposto (almeno a certi livelli) dai nostri modelli intellettuali di riferimento.
La lingua inglese mi ricollega a Maurizio e alla sua legittima richiesta di maggior precisione attorno alla differenza (presunta) fra talento e genio. Genio e talento (il genio viene prima) li valuto sia in senso etimologico, sia interpretativo - e qui il margine di “lettura personale” esiste, ovviamente. Genio deriva dal latino Genius che equivale a progenitore, nume tutelare. Qualcosa che aleggia, che sta sopra di noi. Che ci concerne intimamente ma che non è controllabile. Nel tardo latino fu inteso anche come dote naturale, qualcosa che ci è stato trasfuso dai nostri progenitori. Qualcosa di cui siamo portatori, ma senza specifico merito. Talento per come l’intendiamo oggi è parola d’origine provenzale (retaggio greco-romano, ça va sans dire); la parola indicava l’inclinazione della bilancia nella misura del peso. Ancor prima, nella Mesopotamia, il talento era una misura di massa. Indicava un peso molto grande. Di qui la parabola dei Talenti di Gesù. Il padrone distribuisce i talenti e cosa chiede? Chiede di farli fruttare. Quindi chiede uno sforzo, non di sotterrarli e aspettare il ritorno del padrone. Le doti innate valgono il genio. Il talento concerne la volontà e la responsabilità nel concretizzare le doti innate (tramite la fatica che comporta la conoscenza). Tutto questo alla fine vale la nostra micragnosa creatività. Da questa lettura si riesce, forse, a chiarire la frase all’apparenza paradossale di Carmelo Bene: “Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”. “Il talento fa quello che vuole” (molto bello qui l’uso del verbo volere): puoi mettercene poco o tanto, dipende da te. “Il genio fa quello che può”: quello ti è stato dato in dote, e di quello devi accontentarti. E puoi farlo fruttare solo tramite il talento. “Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”, dice Bene. Concordo in pieno. Con le sue qualità innate, il suo intuito pazzesco, le sue alzate d’ingegno... avrebbe potuto-dovuto riscrivere la storia del teatro mondiale. Di lui ci restano invece solo frammenti. Attimi incommensurabili all’interno di opere non del tutto sue, spesso non del tutto riuscite. Ha difettato di talento - vale a dire di volontà, responsabilità. Per riscrivere la storia del teatro mondiale devi avere genio, ma devi anche sentire la responsabilità che quel genio comporta e la volontà di lavorarci sopra. Michael Jordan aveva sovrabbondanza di genio, ma per riscrivere la storia del basket ha dovuto sentire a un certo punto la responsabilità che quel genio comportava e la volontà di lavorarci sopra. Ogni giorno. La conoscenza è quel che ricavi infine da quel lavoro giornaliero (che è la parte più grande, faticosa e importante di tutte, senza la quale né il genio, né il talento è capace d’esprimersi, minimamente). Il talento, insomma, è il tramite tra il genio e la conoscenza (conoscenza di cui parlavo diffusamente nell’istantanea incriminata).
In queste mie parole, lo ammetto, non c’è precisione; c’è, al più, ermeneutica, che è l’arte dell’interpretazione. Un’arte, appunto. Confutabile per sua natura, e per sua fortuna. Per inciso, e per concludere: le scienze, per come le studiai sommariamente a scuola, mi parevano disumane nella loro precisione, incontrovertibili come la morte; e le ho evitate. Fino a che non m’imbattei (grazie a letture narrative) nel principio d’indeterminazione di Heisenberg, e poi nella meccanica quantistica. Che approfondii con gioia. Non è un caso che crescendo ho visto via via la poesia farsi scienza e la scienza poesia, in un intreccio fervido e fecondo. Chiudo con un passo emblematico (credo anche divertente) che secondo me sposa scienza e arte, tramite la “creatività” pura di un ben assortito terzetto d’artisti.
Il principio di indeterminazione indica che a un livello elementare l’universo fisico non esiste in forma deterministica, ma piuttosto come una collezione di probabilità. Ad esempio il modello prodotto da milioni di fotoni che passano attraverso una fessura di diffrazione può essere calcolato usando la meccanica quantistica, ma il percorso esatto di ogni fotone non può essere predetto da nessun metodo conosciuto. Ed è questa interpretazione che Einstein stava mettendo in discussione quando disse: “Non credo che Dio abbia scelto di giocare a dadi con l’universo”. Bohr rispose: “Einstein, smettila di dire a Dio cosa fare con i suoi dadi”. Più tardi Hawking aggiunse: “Einstein sbagliò quando disse: «Dio non gioca a dadi». I buchi neri suggeriscono infatti non solo che Dio gioca a dadi, ma che a volte voglia confonderci gettandoli dove non li si può vedere".
25/05/2012 Filippo Maglione