Un periodo di intenso, ricco di soddisfazioni e a tratti frenetico lavoro - in un’estate grigia e piovosa che ha invece mancato di fare il suo, di lavoro - ci ha distratti per lungo tempo dal sottile piacere dell’Istantanea. Nei rari momenti di tregua (siamo ancora a digiuno di ferie) ne abbiamo rilette alcune, che hanno sollecitato questa.
Cercando di rispondere a mia figlia che mi chiese il perché delle Istantanee e del perché campeggiassero nella home page del mio sito professionale.
Toccando le corde dell’emotività e delle suggestioni personali, con le Istantanee cerco di definire quanto il nostro mestiere sia (e debba essere) intrecciato alle nostre vite, per poter essere espresso a un livello più alto, o per lo meno decente. Le Istantanee, questi scritti liberi, variabili ed estemporanei, cercano quindi di raccontare un mestiere in soggettiva, piuttosto che una personalità in modalità narcisistica. È il mestiere il protagonista, anche quando sembra che non lo sia, per il semplice fatto che tende a comprendere tutto per sua stessa natura. In questi scritti è però chiaramente in atto una sorta di idealismo: è il mondo per come io lo vedo e per come me lo rappresento. È un tentativo originale - non mi è mai capitato d’imbattermi in qualcuno che raccontasse il mio mestiere in questo modo - e come tale è esposto a critiche ed encomii, profondità e leggerezze, barlumi d’acume e ridicolaggini. Perché ho voluto esporle in home page? Credo sia un atto estetico dai contenuti simbolico-morali (come la gran parte degli atti estetici): volevo che il sito d’acchito non ricordasse in nulla una realtà commerciale, con i suoi prodotti in vetrina; un lungo testo complesso fitto di sollecitazioni spurie è una garanzia in questo senso. Serve anche a scremare i nostri possibili clienti, a renderli consapevoli a quale rischio vanno incontro contattandoci. E godo quando qualcuno mi dice: “Bello il tuo sito, ma perché non esponi i tuoi lavori?”. Mi tranquillizza sapere che la vetrina del mio negozio è relegata al retrobottega.
Cercando di rispondere a chi mi chiede perché tratto così poco d’attualità, parlando di un mestiere così condizionato delle mode e perciò dalla contemporaneità.
Ogni fatto incide sul nostro morale, perciò sul nostro lavoro. Ma non solo: ogni ricordo può rivelarsi vincente nello sviluppo di una campagna pubblicitaria o di una immagine coordinata. Al contrario ogni delusione può dimostrarsi ferale. Far colazione sentendo elencare i mali inestirpabili del mondo, per chi è costretto a vivere di suggestioni corrisponde a una falsa partenza. Siamo costretti all’ottimismo, per contratto, volenti o nolenti: ci rivolgiamo al mercato, che trae vantaggio solo da questo. Dobbiamo perciò nutrirci di cultura e di bellezza più che di storia e attualitá, per tener desto il nostro morale: la cultura stimola progresso e creatività, la storia atterrisce (per lo meno nella sua versione convenzionale, geopolitico-sociale). “La storia è la più grande lezione di cinismo che si possa concepire” (Cioran). Come posso assistere a una decapitazione in diretta e subito dopo esaltare “sinceramente” il design di un manubrio per biciclette? Non riesco a non credere in quel che scrivo e che faccio, sia essa una dichiarazione d’amore, un insulto o una campagna pubblicitaria. Devo crederci, per lo meno nel preciso momento in cui sto vivendo quel fatto (la dichiarazione, l’insulto, la campagna). Faccio fatica ad affermare che un bravo creativo debba per forza trascurare in toto l’informazione (l’attualità), e in questo senso ne approfitto per autocensurarmi: da quasi dieci anni infatti evito scientemente ogni tipo d’informazione politica e di cronaca, non frequento quotidiani, telegiornali, siti d’informazione, nulla. Perché lo faccio? Per semplice autodifesa. Difesa del mio ottimismo, anzitutto. E poi per non rischiare di cadere nella inutile divagazione tentacolare (i media sono così ramificati e pervasivi che l’accumulo d’informazioni rischia di coincidere infine alla totale disinformazione, nell’obiettivo comune del totale rimbecillimento dell’utente medio).
Ma non voglio rinnegare la grande lezione che ci può essere impartita sia dall’attualità che dalla storia, se lette nel verso giusto, perciò dialettico; conscio però che occorra approcciare sia l’una che l’altra con mille cautele, cercando di non restarne emotivamente coinvolti - ed è proprio l’emotività che mi fa preferire il massimo delle cautele nei loro confronti, e perciò il totale azzeramento, che come detto è assurda esagerazione. Cultura e bellezza dovrebbero invece essere il nostro pane e olio quotidiano, da azzannare a profusione con trasporto, senza paura d’ingrassare. Dalla cultura e dalla bellezza (compresa la “vera” storia, ovvero quella della cultura: della filosofia, della scienza, delle lettere, delle arti...) provengono gran parte dei nostri stimoli, se ravvivati da passione, sincerità, sensibilità e costanza.
Di recente, assieme alla collega Chiara Grandesso, abbiamo sviluppato i temi di una nuova immagine coordinata e pubblicitaria di un brand che si propone di sfondare (con un certo clamore) nel settore del design di componenti per interni. Un lavoro divertentissimo. I momenti cruciali sono coincisi con due riunioni in cui ci siamo bombardati di riferimenti che poi abbiamo cercato di reinterpretare concretamente tramite parole e segni. Ci siamo serviti della nostra memoria, delle nostre letture, dei nostri studi, delle nostre emozioni, degli spettacoli visti e ascoltati in passato... Citazioni svariate si sono rincorse quasi mai a sproposito e quasi sempre ad apportare un grano di senso in più a tutta la struttura concettuale che stavamo facendo “sorgere dal niente”. Oddio, non proprio “dal niente”, visto che avevamo alle spalle un ottimo briefing con un cliente motivato ed elettrico, che ha trasmesso i giusti stimoli. Ma prima di quel paio di riunioni erano solo questo: stimoli inerti e impalpabili. E invece tramite Seneca, Lou Reed, il principio di contraddizione e la tautologia, Marinetti, Cioran, Platone e la maieutica, D’Annunzio, El Lissitzky, Paola Mastrocola, Deleuze, Le Folie Bergère, John Cale, Proust, Pina Baush, Andy Warhol... di ricordo in ricordo di citazione in citazione di legame in legame... il passato ha dialogato con noi ricreando il presente. E abbiamo immaginato (e creato) frasi e segni che tenevano insieme tutto in maniera nuova.
Il clima di queste riunioni era pieno di entusiasmo, quasi infantile, pur tenuto a bada, raffreddato per così dire dall’esperienza e dall’età. Non era una gara, perché si godeva a “superarci e a essere superati” (in una gara si gode solo in un senso). Era un gioco infantile, un “uscire dal mondo reale”, denso di riferimenti più o meno antichi, più o meno colti. Un gioco da adulti.
Due considerazioni che emergono dall’analisi di questo nostro gioco.
La prima è di segno negativo. Ma non si rischia una somma superficialità a lavorare in questo modo, nel preparare questo intruglio di riferimenti svariati e contraddittori? Non si rischia di generare un mostro posticcio? E non si rischia di sconfessare la profondità dei riferimenti, con questo esorbitìo di leggerezze messe insieme surrettiziamente - e per bassi fini commerciali, pergiunta? Per la risposta mi soccorre Cioran quando afferma che “si dominano le cose in superficie, mai in profondità. E tutto ciò che è profondo nega la libertà”. Che è una frase stupenda che oltretutto contraddice molte delle mie apparse in precedenti Istantanee, a sottolineare ancora una volta come la storia della cultura, così come l’intelligenza, sia fatta di intermittenze, di incostanze, di gioiosi contrasti e contraddizioni (che poi sono giusto i temi portanti dell’immagine e comunicazione che io e Chiara stiamo creando per il brand di design).
Anche la seconda considerazione è di segno negativo, e parla di una pericolosa perdita di contatto con la realtà, con la contingenza, in virtù dei giochi che ci creiamo, dei linguaggi fittizi che dobbiamo costruire, della distanza che dobbiamo mantenere nei confronti dei problemi quotidiani per nutrire in qualche modo il nostro ottimismo un po’ puerile. E qui mi viene in aiuto ancora lei, la serenamente geniale Paola Mastrocola, nel suo ennesimo pezzo di bravura intitolato “Altri pianeti”.
“Quando ci mettiamo vicino a un bambino, è possibile che di colpo lasciamo questo nostro pianeta, andiamo ad abitare nel suo e ci viene anche di metterci a parlare un’altra lingua... Può capitare per esempio che una sera al ristorante, se siamo seduti vicino a un bambino, aspettando il secondo che non arriva mai, di colpo ci mettiamo il tappo della minerale su un occhio e diventiamo un pirata e cominciamo a parlare di mare e tempeste, assalti e isole del tesoro. Così, in un modo del tutto naturale. Siamo semplicemente andati a finire su un altro pianeta, tutto qui. E parliamo quella lingua, che infatti il bambino comprende all’istante. Credo che dovremmo farlo di più. Credo che dovremmo farlo anche quando, al ristorante, siamo seduti vicino a un adulto”.
17/09/2014 Filippo Maglione